L’accordo che ha interrotto l’asfissia finanziaria che stava per provocare il collasso dell’economia greca e l’uscita del Paese dalla moneta unica ha allentato la tensione sui mercati, ma non ha risolto i problemi che ci hanno condotto a un passo dal baratro. Le istituzioni europee non sono state in grado di dare una risposta credibile alla domanda posta da chi sostiene che un’economia priva di un tessuto produttivo dinamico non possa far fronte a un debito come quello accumulato dalla Grecia negli ultimi anni. La prova di forza tra la Germania – che continua a respingere qualsiasi ipotesi che comporti un alleggerimento del fardello imposto ai greci – e Paesi come la Francia e l’Italia – che, sia pur timidamente, sembrano essere non contrari a un taglio del debito – non si è ancora conclusa. Nel Parlamento ateniese si è formata una maggioranza che ha dato fiducia al nuovo governo che si è impegnato a onorare i termini imposti dai partner europei. Tuttavia, chi a Berlino sperava che l’ultimatum (perché di questo si è trattato, come ha scritto Adriana Cerretelli) avrebbe provocato l’uscita di scena di Alexis Tsipras sarà rimasto deluso. Gli ultimi sondaggi continuano ad accreditare il partito guidato dall’attuale primo ministro come largamente favorito se i greci tornassero alle urne, nonostante l’uscita di un consistente numero di parlamentari.
L’attuale, relativa, tranquillità non ci consente di affermare che il peggio sia alle nostre spalle. Le vicende drammatiche delle ultime settimane potrebbero aver rimandato, non scongiurato, la catastrofe economica e politica di un fallimento dell’euro. Se qualcuno trova questa affermazione pessimista, lo inviterei a riflettere sul peso che una visione irrealistica di cosa è stato e cosa potrebbe essere l’Unione monetaria continua ad avere nel dibattito pubblico. La fiaba delle cicale e delle formiche continua a essere il modello di riferimento per interpretare una crisi che ha la sua causa remota in un difetto di disegno della moneta unica che era noto da anni. Solo la mancanza di giudizio politico, di “senso della realtà” avrebbe detto Isaiah Berlin, può spiegare la superficialità con cui ci si è affidati all’ipotesi che i tasselli mancanti del puzzle sarebbero andati a posto da soli, con qualche frizione trascurabile, spingendo i popoli europei verso quel livello di integrazione politica indispensabile per tenere a galla la barca in caso di tempesta. Le cose, come è ormai evidente, sono andate diversamente. Messo con le spalle al muro, il primo governo Tsipras ha tentato di giocare il tutto per tutto, confidando che il timore della catastrofe avrebbe spinto la Germania a cedere. La carta del referendum, giocata con spregiudicatezza, è stato il momento culminante di questa strategia. Fallito il quale, Tsipras, mostrando capacità di manovra di cui pochi lo ritenevano capace, non ha avuto altra scelta che cedere alla forza maggiore. Dallo scontro la Grecia è uscita umiliata, ma la Germania ha sperperato buona parte del suo capitale di credibilità. Rivelando un volto che oggi tormenta i sonni di molti, probabilmente non solo nelle capitali mediterranee. Ecco perché l’attuale compromesso non pone fine al conflitto, ma segna soltanto una tregua nelle ostilità.
Gli elettori greci che hanno votato “no” al referendum non sono certo i primi a esprimere la propria preferenza per l’autodeterminazione quando l’alternativa è essere amministrati da una élite, per quanto bene intenzionata, fuori dai confini nazionali. Immaginare che nelle condizioni attuali si possa fare un salto in avanti nell’integrazione politica è una follia. In un contesto in cui l’interesse nazionale è lo standard di misura delle politiche non può esserci un’unione stabile e duratura senza una risposta adeguata alla domanda di riconoscimento. Questa è la lezione impartita dal fallimento politico nel gestire la crisi del debito greco. Una lezione che riguarda tutti.
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