Nei primi mesi del 2020, con la diffusione delle norme anti-contagio dovute all’esplosione della pandemia nel nostro Paese, la maggioranza di noi si è trovata per diverse settimane in casa, senza possibilità di uscire. Le mura domestiche hanno così rappresentato – per lo più – una protezione, non solo dagli agenti atmosferici, ma soprattutto dai rischi di malattia. Le nostre case ci hanno accolto, ci hanno custodito, hanno garantito la nostra sopravvivenza. Abbiamo ottimizzato gli spazi, riscoperto angoli, ridefinito funzioni. Non potevamo spostarci, entrare in altre case, far entrare altri in casa nostra. La pandemia ha riportato bruscamente le funzioni della casa ai gradini più bassi della scala di Maslow. È perciò emersa subito la drammatica situazione di coloro che non hanno una casa o che ricorrono ad alloggi impropri e inadeguati, quali ad esempio automobili, roulotte o garage. Un fenomeno che è andato diminuendo nel tempo, ma, sebbene dal punto di vista statistico sia residuale, ha una notevole rilevanza dal punto di vista sostanziale. La casa è infatti, prima di tutto, necessaria per la sopravvivenza e la riproduzione.

Con la diffusione della pandemia, l’indiscutibilità della funzione di bene rifugio dell’abitazione è stata estesa a tutti, compresi coloro i quali ne avevano da sempre beneficiato. Vengono soddisfatti principalmente i bisogni primari, mentre quelli secondari, strettamente legati al contesto e al momento storico che si sta vivendo, perdono di rilevanza. La casa non si manifesta più come espressione di uno status, di prestigio e ammirazione. Ancora meno pesa il ruolo di investimento economico. In un momento storico in cui non è stato possibile muoversi, sono stati interrotti le compravendite, gli affitti, i traslochi, ma anche gli sfratti. Il possesso della propria casa, che viene considerato come elemento dell’abitazione che offre sicurezza nel tempo agli abitanti, emerge come incapace di soddisfare i bisogni primari degli individui e delle famiglie.

Al contrario, ciò che è apparso fondamentale è stato vivere in una casa adeguata, ossia non soffrire di disagio abitativo. Per stare bene in casa, più che possederla, è stato necessario che fosse abbastanza ampia e senza problemi strutturali. È preferibile rimanere chiusi in un’abitazione di proprietà piccola, umida e buia oppure in una casa in affitto ampia e luminosa, magari con un bel giardino o terrazzo? E al di là delle preferenze, che cosa è indubbiamente più salubre per la salute fisica e mentale?

Non va negato che solitamente vi è una grande correlazione tra la proprietà e il benessere abitativo. Coloro che vivono in affitto hanno maggiori probabilità di avere vari problemi legati alla casa, dal sovraffollamento agli impianti di riscaldamento inadeguati. Tuttavia, questo periodo pone l’accento sulla distinzione tra la necessità di una abitazione – col conseguente diritto all’abitare – e la decisamente meno prioritaria preferenza per la proprietà.

Vivere in una condizione abitativa adeguata, indipendentemente dal titolo di godimento, non è solo fonte di benessere, ma riveste sempre un ruolo cruciale sullo stato di salute di individui e famiglie. In generale, all’aumentare del disagio aumenta il rischio di ammalarsi e di morire. Ma non solo. Alcune analisi delle cause di mortalità hanno mostrato come il vivere in una condizione abitativa disagiata sia certamente un indicatore in sé di vulnerabilità (case più piccole, meno salubri ecc.), ma anche un indicatore di svantaggio legato a comportamenti rischiosi (consumo di alcool, fumo) o di mancanza di accesso ai servizi. Si può quindi facilmente parlare di situazioni di svantaggio cumulativo pregresse all’esplosione della pandemia, ma che ne acuiscono le conseguenze.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 647-654. Il fascicolo è acquistabile qui]