Il tema è davvero il “decidere”?, si chiede Nadia Urbinati intervenendo nel dibattito apertosi fra Luigi Bobbio e Michele Salvati. Posta così, la questione è a mio giudizio posta male. Il dibattito sul parlamentarismo è un ever green del rapporto tra intellettuali e sfera politica: da metà Ottocento in avanti gli intellettuali pensano che difendendo quello che a loro pare il pluralismo della democrazia delle Aule difendano i loro spazi nella presenza pubblica. Poi in genere si accorgono che il parlamentarismo, quando funziona, è retto dalle aborrite “macchine politiche” (cioè i partiti) che li tagliano regolarmente fuori.
Allora si arrabbiano con quelle e tornano alla casella iniziale, riprendendo il vecchio circuito. Quando il parlamentarismo non riesce a esprimere quelle che gramscianamente si potrebbero chiamare “egemonie”, gli intellettuali si illudono che per loro si aprano praterie.
Forse, se riportassimo la questione allo schema originale, potremmo orientarci meglio. Allora il tema non è “decidere”, ma “governare”, cosa che secondo il vecchio Mendès-France voleva dire “scegliere”.
Perché la questione è qui, ed è quella che, mi si perdoni la citazione da professore, già animò il dibattito sulla democrazia nell’Inghilterra fra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento (poi la maggior parte, eccetto Ostrogorski, se ne fece una ragione). Il tema del parlamentarismo è discutere finché non si riescano a far convergere quasi tutte le opinioni presenti attorno a una soluzione largamente condivisa (e quindi pasticciata per superare le reciproche impuntature) oppure è trovare una maggioranza che sceglie e mette in pratica le sue scelte?
A chi obiettava che questo non era democratico, perché violava la volontà popolare, si ribatteva semplicemente che essendo il Parlamento basato sulle elezioni, a ogni tornata elettorale il popolo giudicava il governo, che, se aveva sbagliato, era mandato a casa.
Conosco l’obiezione avanzata sin da allora. Già, ma il governo ha strumenti di manipolazione, per cui non c’è certezza che le elezioni esprimano un volere “libero” del popolo. Si potrebbe contro-obiettare che allora la democrazia è in definitiva se non impossibile molto difficile da realizzare, ma lasciamo perdere. Notiamo semplicemente che anche qui finiamo in un altro modo per tornare alla casella iniziale.
Forse sarebbe meglio impostare la discussione, anziché su una poco convincente difesa del parlamentarismo basata su quella del Senato elettivo, su una valutazione dei sistemi per un controllo dall’esterno della azione della classe politica. D’accordo, oggi il tema della “libera stampa” (o libera informazione) convince poco; sui controlli via Internet abbiamo più che legittimi dubbi; sulla vitalità autonoma della cosiddetta “società civile” avanziamo riserve. Ma se così davvero fosse, che speranze ci sarebbero di avere una vita democratica? Forse che un Senato eletto da un contesto incapace di pensiero autonomo sarebbe un baluardo della dialettica sganciata dai condizionamenti delle fazioni politiche? E se invece siamo convinti che, nei limiti delle realtà terrene sopravvissute alla cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva, una dialettica sociale sia in grado di plasmare e condizionare quella politica, perché ciò non dovrebbe potersi realizzare anche in una sola Camera dove la maggioranza potesse governare coi ritmi necessari per essere efficace e contrastata non sulla base delle pulsioni di fazione, ma della forza di chi è capace di capovolgere il consenso maggioritario vigente?
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