«Un po’ di febbre non ha mai fatto male a nessuno, vedrai che poi diventi più alta!». Questo è quanto mia nonna era solita ripetermi da bambina ogni volta che rimanevo a letto con l’influenza. Il fatto che mia nonna avesse ragione (sono perfettamente in salute e sono alta un metro e ottanta) è forse il motivo per cui ho provato tanto stupore davanti alla fila di studenti in attesa per il vaccino antinfluenzale alla Columbia University. Quando ho scoperto che anche fuori dai confini del campus molti newyorkesi avevano fatto ricorso al cosiddetto flu shot, ho compiuto un semplice ragionamento: se tutti intorno a me si vaccinano evitando la diffusione del virus, io non rischio di prendere l’influenza. Così è stato. Senza volerlo avevo usufruito dei benefici che una vaccinazione di massa può dare; avevo goduto dell’aura di immunità che gli altri avevano creato intorno a me e, allo stesso tempo, non avevo subito gli effetti collaterali dell’inoculazione che nei miei colleghi si erano presentati come tosse, raffreddore o, nella peggiore delle ipotesi, qualche linea di febbre. In breve – pensai – sono una free rider.
Come è ormai noto, il free rider è colui che gode di benefici e servizi senza aver lato sensu pagato per essi. È il caso, ad esempio, di colui che usa il parco pubblico costruito con i contributi dei suoi concittadini pur non avendo mai pagato le tasse, o di colui che – come è successo a me – gode di un’immunizzazione indiretta senza essersi assunto i rischi che una vaccinazione può comportare. Sebbene il fenomeno del free riding sia discusso soprattutto all’interno di quelle teorie economiche che elaborano strategie per ridurlo, esso trova realizzazione nei più diversi contesti sociali. Non dovrebbe stupire, dunque, che se ne possa parlare discutendo di salute pubblica e di politiche di vaccinazione.
Le ragioni per cui negli ultimi tempi si è riacceso il dibattito intorno a questi temi sono legate ad una maggiore richiesta da parte degli individui di essere lasciati liberi di decidere se sottoporre se stessi o i propri figli all’inoculazione di vaccini. Dietro tale rivendicazione si cela talvolta il timore per gli effetti collaterali e talaltra una più sincera pretesa di libertà. I due corni del dilemma che le istituzioni si trovano ad affrontare, dunque, sono rappresentati rispettivamente dal diritto del singolo all’autodeterminazione, da un lato, e dalla necessità di salvaguardare la salute pubblica, dall’altro.
Individuo versus comunità è dunque la partita in gioco. Partita piuttosto curiosa giacché – verrebbe da dire – cos’è mai la comunità se non un insieme coeso di individui? La stretta dipendenza dei due corni del dilemma è evidente: se l’individuo può non vaccinarsi non rischiando con ciò il contagio è perché vive all’interno di una comunità in cui il virus non trova diffusione. Allo stesso tempo, se il virus non trova diffusione è perché i singoli individui che formano quella che chiamiamo «comunità» ne sono singolarmente immuni. Se è possibile parlare di free riding in questo ambito, dunque, è perché esso è strettamente dipendente da un altro fenomeno noto con il nome di immunità di gruppo o immunità di gregge (herd immunity).
L’immunità di gruppo è la forma di difesa contro la diffusione di malattie che si realizza quando un’alta percentuale della comunità è diventata immune al virus, garantendo così copertura anche alla minoranza non immune. Questa forma di immunità indiretta mostra chiaramente il paradosso per cui ciò che è razionalmente preferibile per l’individuo può essere incompatibile con ciò che è bene per la comunità; mentre le istituzioni tendono ad incrementare il più possibile la percentuale di vaccinazioni in modo da rendere sicura la comunità, l’individuo si trova ad affrontare una diversa decisione. Per il singolo, infatti, in un contesto in cui il pericolo della diffusione del virus è minimizzato dalla vaccinazione di massa, la strategia ottimale è data, all’opposto, dal non ricorrere all’immunizzazione diretta. Come ha sottolineato Geoffrey Rose nell’articolo Sick Individuals and Sick Population (in «International Journal of Epidemiology», 14/1985), paradossalmente «la strategia ideale del singolo è di incoraggiare tutti ad essere vaccinati, salvo se stesso e i propri figli».
La ragione per cui per il singolo è preferibile sfruttare l’immunità di gruppo anziché vaccinarsi è presto detta: i vaccini non sono sicuri al 100%. Il vaccino consiste pur sempre in un’alterazione, per quanto controllata, del sistema immunitario mediante l’inoculazione del virus appositamente trattato per abituare il nostro corpo a reagire ad esso. Non dovrebbe stupire, dunque, che si possano registrare effetti collaterali.
Nel 1999 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha costituito una commissione permanente per lo studio degli effetti collaterali dei vaccini. I membri della commissione – che devono dichiarare qualsiasi forma di conflitto di interesse e il cui mandato dura un massimo di tre anni – rendono pubblici periodicamente i risultati degli studi e la conclusione a cui per ora si è pervenuti è che nella maggior parte dei casi gli effetti collaterali associati ai vaccini sono lievi o facilmente curabili e che i rari effetti gravi sono legati all’errore umano, alla disattenzione nei confronti delle controindicazioni o al già compromesso sistema immunitario dei pazienti. Sebbene sia difficile catalogare e classificare tutti gli effetti collaterali, dunque, ciò che è certo è che i vaccini non sono pericolosi quanto un’epidemia. Per citare un dato tra i tanti, mentre il morbillo causa l’encefalite in un caso su mille, l’incidenza di encefalite in persone vaccinate è di uno su tre milioni. Percentuale troppo bassa per ritenere il rapporto tra vaccino ed encefalite direttamente causale.
Dinnanzi a questi dati come si spiega il crescente scetticismo nei confronti di una pratica che ha salvato milioni di vite?
Il timore per le complicazioni legate ai vaccini ha da sempre fomentato il dibattito sulla loro opportunità. Quando alla fine del XVIII secolo Edward Jenner inoculò per la prima volta il vaiolo bovino in alcuni bambini sani (tra cui i propri figli) per prevenire l’insorgenza del vaiolo nella sua versione più letale, l’opinione pubblica condivise il disgusto dinnanzi all’idea di vedersi scorrere tra le vene il composto purulento, mentre la Royal Society rifiutò la relazione di Jenner perché troppo innovativa.
E davvero rivoluzionaria era l’idea del medico britannico dal momento che, grazie alla sua perseveranza, i casi di vaiolo si ridussero da 18.596 a 182 in soli dieci anni e oggi il vaiolo è l’unica malattia completamente debellata nella storia dell’umanità.
Sebbene l’avversione per le vaccinazioni sia da sempre stata una costante, i vaccini hanno sofferto di quello che Federico Zuolo ha chiamato il «paradosso del successo». Man mano che la memoria delle conseguenze delle epidemie è andata perduta, l’attenzione pubblica si è spostata sempre più dal timore della malattia al timore della cura. La crescita delle preoccupazioni legate ai vaccini, dunque, è direttamente proporzionale alla riduzione dell’incidenza delle patologie. Questa generale tendenza trova conferma non appena si prova ad invertire il rapporto tra diffusione della malattia e copertura vaccinale.
Resta difficile da credere, ad esempio, che anche il più incallito attivista antivaccino non abbia parteggiato per i ricercatori che lavoravano contro il tempo alla ricerca di un vaccino per l’ebola. Che poi tale contraddittoria opinione abbia lasciato limpida la coscienza dell’incoerente militante non è certo perché questo ha cambiato idea, ma, semmai, perché i riflettori dei media si sono presto spostati, lasciando medici, paramedici e volontari ad affrontare da soli la più grande epidemia degli ultimi anni.
Il crescente scetticismo nei confronti dei vaccini è sostenuto da argomentazioni che vanno dalla inutilità dell’immunizzazione contro malattie ormai scomparse, al diritto di rifiutare un’azione ritenuta invasiva, alla necessità che il corpo produca autonomamente le proprie difese.
Così, mentre alcuni americani si sottopongono annualmente al vaccino antinfluenzale senza porsi troppi interrogativi, sempre più famiglie organizzano veri e propri flu-parties in cui i bambini sono liberi di condividere patatine, CocaCola e una discreta dose di germi.
Un’altra argomentazione addotta dagli aderenti al movimento antivaccini è che i vaccini non sono altro che un grosso guadagno delle case farmaceutiche che lucrano sulla salute degli individui. Come spesso accade, infatti, dove c’è denaro la tentazione di moltiplicarne il valore è forte. Questa è la ragione che a gennaio di quest’anno ha spinto Medici senza frontiere (Msf) a richiedere ad alcune aziende farmaceutiche di abbassare di 5 dollari il prezzo dei vaccini nei Paesi in via di sviluppo.
Secondo una ricerca condotta dalla stessa Msf, infatti, dal 2001 il costo per immunizzare un bambino è salito di 68 volte. Questa tendenza – che dovrebbe essere arginata dalle istituzioni sanitarie mondiali – non costituisce tuttavia una ragione per sostenere che le case farmaceutiche siano responsabili di una macchinazione costruita ad arte per ingannare gli individui. Se è vero che i vaccini per come li conosciamo oggi sono il prodotto delle industrie farmaceutiche, infatti, le malattie non lo sono. A meno che – si intende – non si voglia sostenere che l’epidemia di peste che tra il 1347 e il 1353 ha ucciso un terzo della popolazione europea non sia il frutto di un complotto dei progenitori della GlaxoSmithKline.
Negli Stati Uniti il diritto di coloro che militano tra le file del movimento antivaccini è ampiamente tutelato. Tutti gli Stati accettano esenzioni per motivi di salute, cinquanta ammettono il ricorso a ragioni legate alla scelta religiosa, mentre venti tra questi hanno recentemente ampliato la categoria delle esenzioni per motivi di coscienza aggiungendo ragioni morali e filosofiche. Fatta eccezione per il Mississippi e il West Virginia, dunque, gli Stati Uniti offrono diversi modi per evitare i vaccini e sempre più persone vi fanno ricorso.
In Europa il quadro normativo è più eterogeneo, sebbene la tendenza generale sia quella di una progressiva svolta dall’obbligatorietà alla raccomandazione. Fatta eccezione per i Paesi dell’Est Europa in cui non è prevista alcuna forma di esenzione dall’obbligo vaccinale, infatti, Stati come la Germania, la Spagna, la Svezia e il Regno Unito hanno optato per una più mite politica di raccomandazione. Tale tendenza non ha ancora toccato Francia e Italia dove i vaccini contro difterite, poliomielite, tetano e epatite B sono tuttora obbligatori.
In Italia, tuttavia, non sono mancati i casi di richiesta di esenzione, spesso motivati alla luce dell’articolo 32 comma 2 della Costituzione, e molti sono i medici che, pur essendo a favore dell’obbligo vaccinale, hanno mostrato come il ricorso a vaccini combinati oltrepassi i limiti imposti per legge. A causa della difficoltà di reperimento delle vaccinazioni singole, infatti, è frequente nel nostro Paese il ricorso a immunizzazioni che, come nel caso dell’esavalente, combinano insieme differenti vaccini. In breve, dunque, la critica di quest’ala più moderata è che, mentre lo Stato italiano richiede quattro vaccinazioni, con l’esavalente di fatto ne impone sei, con il rischio di causare uno shock del sistema immunitario.
Ora, se anche la parola «difterite» è caduta in disuso, perché rischiare di incorrere in un effetto collaterale del vaccino? Anche in questo caso la risposta è molto semplice. Se è vero che i vaccini non sono sicuri al 100%, è vero anche che essi non sono efficaci al 100%. La ragione per cui i non vaccinati non rischiano di ammalarsi, dunque, è dovuta in buona sostanza alla persistenza dell’immunità di gruppo che rischia di essere compromessa quando – oltre alle percentuali di inefficacia – il free riding diventa la prassi. Il conflitto morale in cui incorre il free rider è chiaramente mostrato dall’imperativo categorico kantiano. Al free rider diventa chiaro che il principio «agisci come se la massima della tua azione fosse la base di una legislazione universale» lo pone di fronte alla paradossale situazione per cui se tutti sfruttassero l’immunità di gruppo senza vaccinarsi non esisterebbe più alcuna immunità di gruppo di cui avvalersi. Un po’ come a dire: ci spiace, ma il free riding non è cosa per tutti.
Non serve scomodare Kant per rendersi conto delle conseguenze di un’immunizzazione sempre più ridotta. L’epidemia di morbillo cominciata nel 2014 nel parco di divertimenti Disney in California ha mostrato la pericolosità di un massiccio astensionismo. Una malattia che nel 2010 le autorità sanitarie statunitensi avevano dichiarato completamente scomparsa dal territorio nazionale ha portato nuovamente l’attenzione pubblica a concentrarsi sulla velocità di diffusione del morbo e sui suoi rischi. E chi pensa che il morbillo non sia molto più che qualche macchiolina rossa e un po’ di febbre dovrebbe sapere che l’Unicef ha inserito il morbillo nella top five delle patologie che portano alla morte migliaia di bambini ogni anno. L’Oms, inoltre, ha stimato che prima del 1980 – anno in cui ha avuto inizio la massiccia campagna di vaccinazione contro il morbillo – questa malattia ha causato ogni anno circa 2,6 milioni di morti, la maggior parte dei quali bambini al di sotto dei 5 anni. La sottovalutazione del morbillo è costata all’Italia l’ufficiale richiamo dell’Oms quando, nel 2014, l’Istituto superiore di sanità ha diffuso per quell’anno i dati relativi ai casi di morbillo (2.211) e alla percentuale di individui che tra questi non era stata vaccinata (87%).
Il caso statunitense è solo l’ultimo di una lunga serie. A seguito del dibattito sulla pericolosità del vaccino anti Morbillo-Parotite-Rosolia (Mpr) in Inghilterra si è passati dal 92% dei vaccinati nel 1994 all’84% nel 2002. Conseguentemente ad un aumento sempre crescente del numero dei casi nel 2008 il morbillo è stato dichiarato endemico nel Regno Unito. Da ultimo va ricordato che, sebbene l’Oms avesse dichiarato la scomparsa della poliomielite dalla regione europea, nel 2012 la segnalazione di circa 500 casi confermati di poliomielite nella nostra regione ha rimesso in discussione lo stato dell’area prima considerata polio-free.
Situazioni come queste dovrebbero far riflettere sull’importanza delle vaccinazioni individuali al fine di rendere immune l’intera comunità. La questione, tuttavia, è la seguente: se statisticamente non tutti possono godere dell’immunità di gruppo, il free riding deve essere completamente eliminato o ci sono categorie di persone che devono poter sfruttare questo fenomeno?
La prima considerazione da fare è che il limite minimo affinché l’immunità di gruppo sia preservata dipende dal tipo di vaccino in questione, ma non è mai inferiore al 90% dei vaccinati e può raggiungere anche il 95%, tenendo conto anche della parziale inefficacia del vaccino. Ora, chi sono coloro che nei Paesi in cui è ammessa l’esenzione beneficiano dell’immunità di gruppo? Una società pluralistica che si proclami liberale deve tenere conto della scelta personale dei suoi cittadini. Quando però l’individuo realizza la propria identità all’interno di un gruppo che aderisce a fedi religiose contrarie a determinate pratiche, il numero di coloro che richiedono differenti diritti e forme di tutela aumenta notevolmente.
Per quanto questi gruppi restino delle minoranze, tuttavia, il numero di individui che li compongono rischia inevitabilmente di far raggiungere la soglia critica. L’esigenza di salvaguardare le minoranze e le loro scelte finisce così per confliggere con un altro tema caro allo Stato liberale, ossia la salvaguardia della salute pubblica. La situazione si complica ulteriormente quando tra i requisiti per l’esenzione fanno capolino ragioni di natura filosofica o morale. La vaghezza di tali categorie e la non necessità per il richiedente di specificare ciò che si cela dietro alla propria richiesta fanno sì che molti finiscano per usare queste etichette per indolenza e inerzia. Nella ferma (ed erronea) convinzione che la scelta per la non azione comporti meno responsabilità di una a favore dell’azione.
Nella misura in cui il numero delle persone vaccinate non può oltrepassare la soglia minima – pena il rischio per la salute pubblica – la questione dell’esenzione smette di essere solo un problema di ordine fattuale e assume un forte risvolto normativo. La questione diventa allora: quali sono i casi in cui si deve dare un limite all’esenzione e quali i casi in cui, al contrario, è ammissibile il ricorso al free riding?
Una possibile risposta ci viene dall’applicazione del principio del danno così come è stato formulato da John Stuart Mill. Lo Stato – dice Mill – non può limitare l’azione individuale se essa costituisce un danno solo per colui che la compie. Per dirla in modo conciso, se le mie scelte – assumendo qui che esse siano sufficientemente meditate, consapevoli e informate – portano a conseguenze negative solo per la mia persona, non esistono ragioni per limitarle. Superata l’obiezione che ci vorrebbe schizofrenicamente distinti in un sé che patisce e in un sé che agisce – da cui il primo dovrebbe essere salvato – crollano le ambizioni dei paternalisti dell’ultima ora. Anche di quelli che, sulla scia dell’acclamata teoria di Thaler e Sunstein (Nudge. La spinta gentile, trad. it. Feltrinelli, 2009), militano sotto la bandiera del paternalismo libertario, lasciando gli individui apparentemente liberi di decidere, ma subdolamente «pungolandoli» per indirizzare le loro scelte.
Le scelte individuali, tuttavia, possono avere ripercussioni anche su chi ci circonda. Questa è la ragione che porta Mill ad aggiungere una piccola ma fondamentale eccezione alla limitazione della libertà individuale. Dobbiamo essere lasciati liberi di agire solo nella misura in cui la nostra azione non comporta un danno per gli altri. Applicando il principio del danno al nostro caso vale la pena domandarsi chi siano questi «altri» che potrebbero subire, pur non volendolo, le conseguenze di una nostra scelta antivaccino.
Come già detto i vaccini non sono efficaci al 100%. Per questa ragione esiste un’esigua minoranza tra i vaccinati che può ancora essere soggetta alla malattia. Il che significa che la mia scelta di non sottopormi al vaccino può avere ripercussioni su quella categoria di persone che, pur essendosi assunta il rischio di incorrere in un eventuale effetto collaterale, non beneficia comunque della protezione dell’inoculazione. Ma la categoria di persone che forse più legittima la riduzione dell’esenzione per motivi di coscienza è costituita da coloro che non hanno ancora o che non potranno mai sottoporsi al vaccino. Come mostrato da Eula Biss in On Immunity (Graywolf Press, 2014), tale categoria comprende i bambini provenienti da famiglie povere che non hanno potuto permettersi in tempo le vaccinazioni, donne incinte nel caso della scarlattina, persone anziane nel caso di gravi forme influenzali e bambini con gravi deficienze del sistema immunitario dovute a cure per patologie gravi. Per i bambini sottoposti a chemioterapia o che hanno sofferto di leucemia, ad esempio, l’esposizione al virus – anche nelle dosi ridotte e trattate presenti nel vaccino – non è sostenibile. È il caso ad esempio di un bambino californiano che dopo essere sopravvissuto alla leucemia non ha più potuto frequentare la scuola a causa dell’elevato numero di coetanei non vaccinati.
Per questi bambini, dunque, la questione «vaccino sì/vaccino no» che tanto turba gli animi dei genitori di bambini assolutamente sani non è un’opzione possibile. Essi non solo non possono essere sottoposti alla immunizzazione, ma rischiano la vita se esposti alla malattia. A causa dell’abbassamento delle loro difese immunitarie, inoltre, essi sono i più esposti alle maggiori complicazioni delle malattie. Per loro, dunque, la possibilità di evitare il virus dipende interamente dai loro coetanei. Fin tanto che l’immunità di gruppo regge essi sono protetti e la campana di vetro che garantisce loro di non contrarre il virus è sicura solo se gli altri genitori realizzano che quella che per loro è una scelta per altri non lo è affatto.
Se le argomentazioni altruistiche non facessero presa sul free rider più determinato è sufficiente ricordare a quest’ultimo che la perdita dell’immunità di gruppo può solo parzialmente essere anticipata.
Il rilievo dell’abbassamento dell’immunità di gruppo al di sotto della soglia critica, infatti, è una considerazione di fatto compiuta a partire dall’aumento esponenziale dei casi patologici. Al free rider, dunque, non resterebbe probabilmente che constatare di persona i risultati che la generalizzazione della sua scelta può portare. Le malattie infettive, infatti, si diffondono con incredibile rapidità e il periodo di massima infettività coincide spesso con il momento in cui la malattia non presenta ancora i suoi sintomi. Le malattie, inoltre, non hanno passaporto e viaggiano gratis.
Se è vero che la scomparsa delle malattie ha lasciato spazio alla paura degli effetti collaterali dei vaccini è anche vero che, come tutte le paure, essa si autoalimenta in un clima di ignoranza o di informazione errata. La più nota tesi portata a sostegno di una campagna antivaccini è quella che il medico Andrew Wakefield sostenne nel 1998 argomentando a favore di una diretta relazione causale tra vaccinazione Mpr e autismo. Se questa tesi è piuttosto citata (è sufficiente digitare «vaccini» su Google affinché l’intelligente browser ci suggerisca immediatamente il collegamento con «autismo»), però, pochi ricordano che la rivista medica «The Lancet» ritrattò ufficialmente lo studio dopo aver scoperto che Wakefield aveva falsificato i dati in favore della propria conclusione.
Manomissione probabilmente operata nel tentativo di commercializzare un prodotto alternativo alla vaccinazione Mpr che – guarda caso – lo stesso Wakefield aveva brevettato. Wakefield è stato poi espulso dal Royal College of Physicians e non può più praticare la medicina.
Negli anni successivi molti sono stati i ricercatori che hanno studiato la questione senza tuttavia mai pervenire a una conclusione che provasse la correlazione tra Mpr e autismo. Ciò nonostante tale tesi è stata accolta anche nelle aule dei tribunali.
Nel 2012 il Tribunale di Rimini ha confermato la responsabilità del ministero della Salute nel caso di un bambino che aveva sviluppato una forma di autismo tre anni dopo l’inoculazione di Mpr. Sebbene la decisione sia stata ribaltata in appello, il dibattito pubblico si è soffermato soprattutto intorno alla prima sentenza. Differente esito ha avuto invece la causa risoltasi nella recente sentenza del Tribunale del lavoro di Milano che obbliga il ministero della Salute a versare un indennizzo a vita a un bambino autistico. Nella sentenza datata novembre 2014 si legge che la decisione a favore del richiedente è motivata in virtù della correlazione tra l’autismo e la somministrazione del vaccino. La sentenza è passata in giudicato dopo che il ministero della Salute ha rinunciato a presentare ricorso. Un silenzio, quello del ministero, che può forse essere spiegato con il timore di suscitare troppi malumori nella sempre più crescente fetta dell’opinione pubblica che ritiene tale correlazione certificata. La scelta del ministero di accettare una simile decisione, tuttavia, pesa molto più di quanto si possa pensare. In questo modo, infatti, lo Stato italiano ha implicitamente avallato una tesi non provata scientificamente, nutrendo timori e paure basate su teorie allarmiste e su informazioni mai verificate.
In un simile clima è del tutto comprensibile che molti genitori siano spaventati all’idea di vedersi costretti a vaccinare i propri figli. Come accettare l’obbligo vaccinale se le istituzioni sembrano ignorare la necessità di gettare luce su questi temi e dissipare le preoccupazioni? La richiesta di una maggiore libertà di decisione, inoltre, è perfettamente coerente con l’impostazione liberale di molti Stati occidentali. Diventa difficile con queste premesse parteggiare ancora per l’obbligatorietà vaccinale. Eppure, a ben vedere, un modo per risolvere il dilemma tra salute pubblica e libertà di autodeterminazione esiste.
In un’era in cui internet rappresenta la maggiore fonte d’informazione, l’affidamento totale e incondizionato che le passate generazioni riservavano al medico ha lasciato spazio allo scetticismo di quanti ogni giorno si autodiagnosticano malattie attraverso lo schermo di un computer.
Continuando a dubitare dei camici bianchi anche quando le cure improvvisate non hanno avuto gli effetti previsti. Ma, d’altro canto, si sa, il bias più diffuso in una società che sta diventando sempre più formata e istruita è quello di sovrastimare il proprio giudizio, preferendo sminuire quello altrui piuttosto che riconsiderare le proprie idee e adattarle ad una palese verità. Come ha mostrato Paul Slovic in The Perception of Risk («Science», 236/1987), inoltre, siamo talmente affezionati alle nostre paure che continuiamo a temere più uno squalo di una zanzara anche quando ci viene detto che quest’ultima, per numero complessivo di morti causati, è probabilmente l’animale più pericoloso al mondo. Allo stesso modo tendiamo erroneamente a stimare che il numero di morti a seguito di incidenti sia maggiore di quello causato da una malattia. Il problema, dunque, è se la formazione e preparazione delle nostre società ha solide fondamenta o è solo la maschera di una generale infarinatura mal assortita.
Se nessuno di noi farebbe mai progettare la propria casa al panettiere, né si farebbe difendere in tribunale da un architetto, non c’è ragione per non affidarsi a coloro che ogni giorno lavorano per migliorare i risultati della ricerca scientifica. Questo naturalmente non significa praticare una totale e incondizionata astensione del giudizio. Le idee e le sensazioni di ciascuno possono essere utili indicatori quando non si trasformano in statici e ciechi pregiudizi, ma sono, al contrario, giustificati alla luce di un ampio ventaglio di informazioni. Se essere informati è un diritto di ciascuno, però, fornire solide e affidabili informazioni è un dovere delle istituzioni che operano in uno Stato che voglia lasciare i propri cittadini liberi di compiere scelte consapevoli. Prima di giungere al momento in cui l’immunità di gruppo sia messa a serio repentaglio a seguito della cattiva informazione, costringendo lo Stato ad obbligare paternalisticamente i propri cittadini in nome di un bene pubblico a rischio, esso dovrebbe contribuire a fornire in modo chiaro i dati necessari per operare decisioni informate.
Questa è la direzione che il piano nazionale vaccini 2012-2014 ha intrapreso sottolineando l’importanza di una campagna di informazione che per ora è decisamente lacunosa. Una maggiore coesione nella gestione delle politiche vaccinali è ciò che il piano nazionale si pone come obiettivo, operando una sostanziale uniformazione delle diverse politiche regionali. La riforma del Titolo V della Costituzione, realizzata nel 2001 con legge costituzionale, infatti, ha modificato l’assetto dei rapporti istituzionali tra Stato, Regioni ed enti locali, introducendo un quadro di devoluzione delle competenze e delle responsabilità in materia sanitaria. Con tale riforma le Regioni hanno responsabilità esclusiva in merito alla gestione e organizzazione del servizio sanitario, mentre allo Stato resta la responsabilità di stabilire quali siano le prestazioni sanitarie essenziali. Vale la pena notare che l’importanza dell’informazione è sottolineata nel piano nazionale vaccini proprio al fine di dare inizio nel nostro Paese ad un graduale passaggio dall’obbligatorietà della vaccinazione a una progressiva adesione libera e consapevole.
Passaggio, questo, che la Regione Veneto per prima ha inaugurato nel 2007 con legge regionale, adoperando un piano di monitoraggio semestrale che permette di tenere costantemente sotto controllo le conseguenze di tale scelta.
La gestione dei due corni del dilemma in gioco in questo dibattito sembra allora dover passare attraverso l’informazione. Un’informazione chiara e coerente che comprenda dati aggiornati e certificati sui reali rischi dei vaccini, sui pericoli di un’epidemia diffusa e sull’importanza della tutela dell’immunità di gruppo costituisce l’unica possibilità per coniugare libertà di scelta e protezione della salute pubblica. Solo chi è informato sull’importanza che la sua scelta può giocare all’interno della comunità, infatti, ha a disposizione i mezzi per far parte di essa attivamente, contribuendo alla sua salvaguardia. La cultura del sospetto e del timore deve lasciare spazio alla trasparenza dell’informazione che, a ben vedere, è il miglior vaccino contro la paura. Un vaccino, questo, che può ben essere detto gratuito, accessibile a chiunque e, soprattutto, totalmente innocuo.
Ecco che, allora, attraverso la sinergia della graduale riduzione dell’obbligo e delle campagne di sensibilizzazione, genitori preoccupati per la salute dei propri figli si sentirebbero forse meno soli e un po’ più rassicurati. Essi saprebbero che gli effetti collaterali dei vaccini sono nettamente inferiori e meno gravi delle conseguenze che lo scoppio di un’epidemia potrebbe generare. Saprebbero che se i loro figli non vaccinati non contraggono malattie non è perché queste sono un’invenzione delle case farmaceutiche, ma perché tutti gli altri ne sono già immuni. Essi capirebbero che l’immunità di gruppo esiste finché, di quel gruppo, si è parte attiva, tutelando con ciò coloro che necessitano della protezione che esso può offrire.
Salute pubblica e scelta individuale diventano così parti integranti di un’unica questione e non più antagonisti in una battaglia che vorrebbe la vittoria dell’uno a discapito dell’altro. Una volta ammessa la non obbligatorietà dei vaccini e mostrati i rischi che un astensionismo di massa può comportare per chiunque, l’annoso dilemma «vaccino sì/vaccino no» trova soluzione nella scelta individuale. Una scelta pienamente consapevole del fatto che i beni pubblici sono tali finché ciascuno, in quanto singolo, ne ha cura. Tali genitori, infine, potrebbero forse capire che, talvolta, quando si è liberi di scegliere, la scelta migliore è proprio quella in favore di chi non ha scelta.
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