Quel che segue potrà sembrare un testo estremo, fazioso, abborracciato, capzioso, atto ad appaiare e sovrapporre la figura di un popolare leader politico contemporaneo, Beppe Grillo, a quella di un dittatore sanguinario ancorché per certi versi macchiettistico, Benito Mussolini, e a quella di un figuro ormai storicizzato, benché ancora protagonista delle cronache, che il leader in questione, Grillo, ha più volte attaccato e dichiarato di voler combattere e annientare, salvo contribuire concretamente alla di lui eternità: Silvio Berlusconi.
Trattasi invece di un’analisi degli italiani, presi tre alla volta ma anche tutti insieme, e della loro affezione inestinguibile al palcoscenico e a chi lo occupa, per comprendere e introdurre la quale può essere propedeutico anche un riferimento al più amato tra i santi di recente conio: Padre Pio da Pietrelcina. La cui venerazione è stata oggetto di diverse trattazioni (si consiglia in particolare la lettura di Francesco Piccolo, L’Italia spensierata, Laterza, 2007) che convergono su un punto: quella per il cappuccino Francesco Forgione è una passione collettiva che assomma episodi leggendari, nel senso più lato dell’aggettivo, controversie storiche, superstizioni diffuse e un côté di fedeli e di mercanti nel tempio che coincide in tutto e per tutto con quello di una rock star. Nessuno si stupirebbe se San Pio fosse vivo e gestisse un bar a Parigi insieme a Jim Morrison.
Motore del ragionamento che si sta qui per introdurre è l’osservazione diretta di una patologia psichica: quella dell’artista. L’autostima di una persona mediamente equilibrata passa per la percezione esterna e il consenso di una schiera limitata di interlocutori, quella che compone la sua sfera di socialità diretta, escludendo le relazioni governate da tweet e like. È normale: ognuno ambisce a essere rispettato e amato da chi può manifestargli affetto, godendo principalmente dell’interazione, meglio se paritaria.
Chi invece desideri l’ammirazione superficiale di perfetti sconosciuti, non già per quel che è ma per quel che rappresenta, non per la propria reale personalità ma per una proiezione distorta della stessa, cioè per un falso, e per questo sia disposto a salire su un palco cavalcando l’insopportabile rischio della disfatta e della disistima indistinta, della caduta rumorosa in luogo pubblico, è allo stesso tempo ardito e incosciente, megalomane e generoso, dunque, sostanzialmente, un pazzo. Animato dal proprio ego importante e – nei casi più pericolosi – da un bene assoluto: l’arte, o l’affermazione di una politica buona e intangibile.
Il lungo preambolo ci porta innanzitutto a Grillo. I testi che analizzano il suo boom e, da ultimo, le sue difficoltà, coprono agilmente la lunghezza dell’equatore. Dall’inizio di questo articolo sono già usciti altri quattro libri. Ma mancano di un dato essenziale: la vulgata, anche accademica, è che Grillo abbia usato la satira per fare politica. Ed è per questo che il suo linguaggio risulterebbe sconnesso, violento e andrebbe di volta in volta deprivato dagli eccessi per coglierne la reale e raffinatissima strategia. In realtà è l’esatto contrario: Grillo ha usato la politica per fare spettacolo. Per recuperare attraverso il teatro prima e le piazze poi quel consenso artistico alluvionale che l’ostracismo dalla tv, la cacciata dalla Rai, il volo tarpato mentre si avviava a diventare un Fiorello della satira, gli avevano fatto perdere.
Chi pensa che gli 800.000 entusiasti di piazza San Giovanni, la marea umana che ha fisicamente sospinto mister Vaffanculo fino al trionfo elettorale, la folla oceanica dell’ultima manifestazione prima del voto, viatico per gli otto milioni di elettori che hanno optato per il Movimento 5 Stelle alle scorse elezioni politiche… chi pensa che tutto questo sia il mezzo, sbaglia. Era – anzi è – il fine. L’obiettivo. Cercava un pubblico, Grillo. L’ha trovato. Esattamente come, prima di lui, Benito Mussolini e Silvio Berlusconi. Le due figure che hanno sfruttato la fascinazione tutta italiana per la clowneria autoritaria, miscelandola al nostro storico spregio per la democrazia consapevole, responsabile, proprio come i rapporti con gli affetti veri, reali, sinceri, che richiedono reciprocità, attenzione, doveri.
In Francia ricordano ancora la corsa alla presidenza della Repubblica del comico Coluche, al secolo Michel Gérard Joseph Colucci. Era il 1980, ma ne ridono ancora sonoramente. Oltralpe, l’ex presidente del Marsiglia calcio Bernard Tapie ha fatto l’attore dopo aver tentato con la politica e avere assaggiato la galera per corruzione. Non prima. Da noi, invece, fatta salva la parentesi gozzaniana postbellica, in cui la Dc aveva imposto buone cose di pessimo gusto, cioè un galateo della rapina in cui i Remo Gaspari o persino i Giovanni Leone calamitavano le imitazioni di Alighiero Noschese e stornavano altrove, quasi sempre, le attenzioni giudiziarie, abbiamo prodotto leader di partito che sembravano usciti dalle peggiori sceneggiature di certi film americani: cliché machisti, xenofobi, bercianti, per questo amatissimi dal pubblico di riferimento. Si pensi a Umberto Bossi e alle sue performance al Cantagiro, quando di Donato aveva solo lo pseudonimo e non lo yacht di uno degli eredi.
Né il futuro prossimo sembra poter cambiare di molto lo scenario, se è vero che la figura politica che meglio coagula il consenso trasversale degli italiani è al momento Matteo Renzi. Ossia l’esemplare 2.0 della notorietà come approdo definitivo, i cui esordi a La Ruota della Fortuna, lungi dall’alimentare facili ironie (come la nota battuta secondo cui per dire qualcosa di sinistra gli toccherebbe comprare una vocale), possono innestare una riflessione sull’apparire come primo obiettivo, la politica come mezzo per ottenere l’attenzione delle telecamere – e, anche qui, non il contrario – e un percorso di inseguimento della visibilità purchessia che a ben guardare non è così diverso dal modello culturale delle Nicole Minetti di turno. Ma torniamo sul palco. Torniamo a Benito, Silvio e Beppe.
Gli esordi. I tre talentuosi megalomani condividono lo strumento di ingresso nel mondo dello spettacolo. Uno strumento in senso lato. Ogni bambino sogna di raccogliere l’ammirazione degli amichetti seducendoli con un giro di chitarra, o un assolo di batteria. Ma solo chi desideri davvero un pubblico, l’adorazione, un applauso caloroso, oltrepassa il limite della noia assoluta che implicano l’autodisciplina dell’apprendimento, la consuetudine col solfeggio, la ripetitività apparentemente inutile.
Il Mussolini violinista, ritratto mentre scruta l’infinito e già vagheggia decisioni irrevocabili, è la miglior conferma di ciò che Curzio Malaparte scriveva di lui: il capolavoro cui ambiva non era il fascismo, ma se stesso. Del Berlusconi pianista sappiamo tutto. Sappiamo delle crociere al piano e di Fedele Confalonieri alla tromba. E della deriva senile apicelliana, sorta di Caruso dissipatore che al mare di Surriento ha preferito il laghetto di Arcore: è la sua natura più profonda. Sul Grillo musicista incombe invece una cappa di rimozione, forse innescata dai poteri forti e dal gruppo Bildeberg, ma vale ricordare la passione per il piano – già emersa nel 1979 ai tempi di Fantastico, Raiuno – che esplose nel secondo Vaffanculo Day di Cesena, non a caso intitolato Woodstock a Cinque Stelle, sorta di concertone del primo maggio andato in scena nel 2010 più o meno con gli stessi cantanti. Grillo infiammò il pubblico con una corposa jam session alle tastiere, in supporto a Dario Fo. Al momento in cui scriviamo pare sia ancora in corso.
Le performance. Mussolini aveva strutturato i propri comizi come vere prestazioni superomistiche, assumendo e in qualche modo precedendo l’abbattimento della quarta parete, il muro immaginario che divide pubblico e attori, da Luigi Pirandello. Il coinvolgimento degli astanti, le domande retoriche, i meccanismi da animatore di villaggi turistici compattarono le masse finché non ci si accorse che i gentil organisateur erano diventate le SS. I comizi di Berlusconi sono sovrapponibili. A partire dalla gestualità, che ormai da tempo prevede un insistito saluto romano per accendere l’identità della piazza. Lo spostamento comico, l’alternanza di messaggi minacciosi e blandizie, erano parte del repertorio ducesco – si veda il celebre comizio di Monza – e integrano alla perfezione le rappresentazioni pidielline. È il cortocircuito che ha generato la vulgata del «fascismo buono», cui si è abbeverata anche l’ex capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, Roberta Lombardi. È lo stesso crinale sul quale si è seduto anche Grillo: quando urla «Italiani!» ai meetup, è complesso distinguere se stia citando piazza Venezia o Antonio La Trippa. Ma lui, come Mussolini e Berlusconi, lo sa perfettamente. E lucra popolarità.
Il pubblico. Il commediante è sempre in scena. Necessita di una claque, meglio se remunerata, cui imporre il proprio genio. Si circonda di figuri ossequienti che ammalia con il talento o, all’occorrenza, con una dipendenza economica. Nello show business è sempre esistito il mestiere dell’«amico di», che diventa confidente, autore, gestore, a patto di miscelare una simpatia genuina con una spruzzata spesso abbondante di prostituzione intellettuale. Nell’Italia del nuovo millennio, dove la società dello spettacolo è definitivamente andata al potere, l’«amico di» viene risarcito dell’indefesso consenso con un posto in Rai, o al Parlamento o in una partecipata, o in un qualunque Cda. Assomma onori (prestigio tarocco, protagonismo nel mondo dei media, benessere estremo: l’esempio perfetto è Carlo Rossella) a oneri (sposare la versione del capo anche contro le evidenze e incassare un’indagine per falsa testimonianza: l’esempio perfetto è Carlo Rossella).
All’alba del 1914, Mussolini aveva appena licenziato il primo numero del «Popolo d’Italia». Diede un ordine: «Portatemi il caffè. Non deve entrare più nessuno, qui. Il primo che entra sparo». Il fattorino rispose: «Un momento, io entrerò per portare il caffè». Risposta: «Sparo anche a te!». Risate. Ora si recuperi su YouTube il video della festa per i vent’anni del Tg5, Silvio che racconta la barzelletta di Carletto ai suoi dipendenti, la fragorosa risata che suggella l’orrido e vetusto motteggio. Lo stesso meccanismo del bunga bunga, il cui – eventuale, fino alla Cassazione – meretricio era rappresentato dalla visione coatta dei video sul Milan, o dalla lap dance davanti alle bandiere di Forza Italia, non certo o non solo dalla deriva sessuale.
Grillo rappresenta un’eccezione: dal pubblico si è sempre fatto pagare, lautamente, fornendo in cambio una messe di informazioni, reale divertimento, una prospettiva personale e di massa. Che anche questo fosse una sorta di rapporto mercenario lo si è però intuito quando si è trattato di maneggiare denaro altrui. Mussolini e Berlusconi tolleravano o incoraggiavano l’appropriazione indebita, Grillo ha tentato di impedirla. Minando parte del consenso interno e trasversale che altri demagoghi televisivi conservano intonso. Tra lui e la diaria, hanno scelto la diaria. O almeno è quel che sostiene proprio Grillo.
Il repertorio. Il mattatore vive sui cavalli di battaglia, sulla riconoscibilità. Sulla ripetizione. Miscela eventi – la battaglia del grano con annessa trebbiatrice, la crociera della libertà con annesso concerto bandistico, l’eventone in piazza San Giovanni con annessa presentazione di Casaleggio e autista fedele – con i tormentoni che rassicurano il suo popolo. La prossemica del balcone, e la sua esaltazione nei cinegiornali Luce, non sono diversi dallo speciale Tg4 sul comizio di Brescia contro i giudici, con l’audio regolato in modo da sottacere le contestazioni ed esaltare i consensi, o da «La Cosa», la web-tv di Grillo che bastona chiunque non si sieda in platea ad applaudire. E ognuno dei tre contenitori rilancia i tormentoni: il posto al sole mussoliniano, la battaglia contro le intercettazioni berlusconiana, quella di Grillo contro le caste. Acriticamente, entusiasticamente. Ma c’è anche un’altra importante condivisione: lo scippo del repertorio altrui. Mussolini affastellava citazioni socialiste, staliniane, d’annunziane, senza preoccuparsi di rendere omaggio agli autori, Grillo – come molti comici – ha cooptato battute pescate altrove, come la celeberrima boutade sulla gobba/scatola nera di Andreotti, ch’era una vignetta di «Cuore». Berlusconi ha fatto di più: non solo s’è intestato gag di altri per colpire gli avversari («Fini ha avuto un parente caduto ad Auschwitz. Cadde da una torretta»: era del comico statunitense Jay Leno, poi tradotto a sua insaputa da Daniele Luttazzi), ma le ha usate addirittura per dar sfoggio di autoironia, come la lisa storiella che prevedeva un suo lancio senza paracadute per far felice la folla. Resta il comico più convincente.
Il look e la scenografia. Il teatrante spesso si nasconde dietro una maschera, che in seguito cercherà faticosamente di abbandonare per imporsi con la propria faccia. Il Mussolini socialista portava i baffi alla Andrea Costa, per coerenza stilistica. Li abolì quando decise di fondare una ditta in proprio, non prima di essersi circondato con la paccottiglia estetica del regime, di cui non ignorava l’aspetto grottesco. Ma anche quello serviva a creare la terra di mezzo della ragione in cui la storiografia si dibatte ancora oggi. I look di Berlusconi sono oggetto di apposita gallery ne Il corpo del capo, di Marco Belpoliti (Guanda, 2009), e la loro varietà sola (senza accento sulla «o», qui non si fa cabaret) testimonia l’insistito equivoco secondo cui continuiamo a scambiare per politico un uomo che vorrebbe principalmente intrattenerci.
L’evoluzione di Grillo è più interessante: a Luna Park (1978) portava salopette di jeans e orribili magliette da marinaretto, metteva il giubbotto di pelle per Te la do io l’America – in cui immaginava di candidarsi alle elezioni con tanto di «Vote Grillo» –, ma quando passava per Sanremo si infilava lo smoking. Nella sua seconda vita ha mantenuto una certa coerenza: polo sudata a teatro, polo sudata ma bianca, anzi candida, per i comizi, e completo giacca e cravatta, modello diavolo veste Standa, per le apparizioni alle assemblee Telecom o al Quirinale. Adattarsi alla platea è sintomo di intelligenza artistica.
Dietro di loro, uno scenario fatto di analogie e divergenze. Guardando i comizi di Berlusconi, e la reiterazione in piccolo della scritta «Silvio» alle sue spalle, si pensa d’istinto alla cartellonistica da intervista calcistica, con gli sponsor assiepati dietro a calciatore e giornalista Sky. In realtà è una grafica futurista prelevata di peso da quella che accompagnava i plebisciti: invece di «Silvio», c’era scritto solo «Si». Senz’accento. Ma tra Silvio e Benito c’è un’importante differenza: i comprimari che affiancavano il Duce, sul balcone, durante le adunate, per rassicurare su bontà della pièce e compattezza del regime. Grillo usa allo stesso modo i militanti, come cornice, perché sa che appena cominciano a parlare il pubblico sciama. Ma il segno è diverso: l’obiettivo è illudere chi sta sotto al palco di essere anche sopra, perché uno vale uno. Invece entrambi – sotto al palco, sopra – fanno da scenografia all’unico che vale davvero.
Gli autori. A teatro e in tv si chiamano autori, in politica ghost-writer. Il senso è identico. Anzi, sovrapposto: sostituire alla propria un’intelligenza collettiva, la cui esistenza dev’essere del tutto ignota a chi sta in platea, il cui ruolo è di spellarsi le mani di fronte al mattatore.
Mussolini non aveva ghost-writer storicamente riconosciuti, ma non disdegnava contribuzioni esterne, ad esempio quando affidò alla penna di Giovanni Gentile, non accreditato, autentici capisaldi del regime come La dottrina del fascismo. Berlusconi ha molto variato negli anni, affidandosi a Giuliano Ferrara quando serviva un vago profilo istituzionale, a Filippo Facci quando andava consultato il casellario giudiziario per prendere a scudisciate Travaglio, a Martufello per il repertorio comico. È così assuefatto a utilizzare materiali altrui che nel celeberrimo speciale assolutorio su Ruby Rubacuori, quello in cui parlava seduto sul divano più brutto d’Europa, teneva in mano il copione. Grillo è partito da Michele Serra e Antonio Ricci, quando doveva innervare di satira i monologhi di Luna Park sulle cabine telefoniche; è passato tra gli altri a Marco Morosini quando ha abbracciato una svolta ambientalista e neoluddista che comprendeva la distruzione dei pc sul palco e la ripulsa totale di Internet; infine ha scoperto Gianroberto Casaleggio, che con ogni evidenza scrive gran parte dei comunicati politici pubblicati sul blog. Casaleggio però è affetto dalla sindrome di molti autori, cioè il rifiuto del ruolo dietro le quinte e la speranza di ritagliarsi uno spazio in prima fila. Di qui il celeberrimo filmato su Gaia in cui auspica la terza guerra mondiale e, in prospettiva, una frizione col capocomico che facilmente porterà a un divorzio. Traumatico.
Le spalle. Ultimo ma non meno essenziale, il ruolo dell’alter ego. Della spalla. Dell’antagonista, o vittima designata, che renderà più efficaci le battute del seduttore, sia esso dotato di mascella prominente, capello inquinante, turpiloquio ridondante. Per Mussolini, il nemico, il Carlo Castellani della situazione, l’Oliver Hardy della drammaturgia comica, il bersaglio pretestuoso da additare alla risata del fedele pubblico, erano i comunisti. Per Berlusconi, i comunisti. Per Grillo, che pesca nelle vicinanze proprio come gli extraparlamentari degli anni Settanta, i comunisti.
Sipario.
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