Giuliano Conti era un grande professore universitario, prima ancora che un grande economista, a lungo segretario della Società degli Economisti, e ha dato contributi importanti alla ricerca su molti temi. Un grande professore è, io credo, colui che riesce a mettere nel suo rapporto con gli studenti, con l’Università e i colleghi la sua scienza e la sua umanità insieme, non nel senso di mettere un po’ di scienza da una parte e un po’ di umanità dall’altra, magari alternando severità e leggerezza, rigore e simpatia, ma nel senso di essere sempre, in ogni occasione, umano e rigoroso al tempo stesso. Per lui la ricerca era un terreno di esercizio di passioni civili e umane, ma anche di cultura e sapienza, e l’insegnamento il luogo in cui trasmettere conoscenze con umanità.
Giuliano aveva la coscienza di essere nato per insegnare e i suoi studenti e allievi l’amavano per questo. La passione per l’insegnamento era passione per quelli a cui insegnava e per ciò che insegnava. Era la passione della vita e veniva da una radice profonda, che lui riconosceva volentieri, quella di Giorgio Fuà, suo maestro. La passione per un’economia legata ai fatti, impegnata a scoprire le verità nascoste nelle cose vicine, al servizio di una comunità definita, territorialmente e umanamente, ma a partire dalla quale l’intellettuale e il docente avvertiva il dovere della generalizzazione, della traduzione dell’aneddoto in esempio, e dell’esempio in spunto per una visione generale dei problemi, e per trovare soluzioni buone per casa tua e per il mondo. E che ti costringeva, dopo l’avventura intellettuale, sempre a tornare a casa a discutere, a ricercare soluzioni e organizzazione, a misurare successi e insuccessi, a formare giovani per l’accademia e le imprese, e poi a trovare nuovi aneddoti da tramutare in esempi e nuovi esempi da tramutare in teoria, e in spunti di soluzione generale.
Per Giuliano questa era l’economia, viva e vicinissima a lui, nato nei pressi di Jesi, con un maestro che lì aveva vissuto la sua lunga vita e lì aveva il suo cenacolo, con un’Università, quella di Ancona, dove iniziò appena tornato da Oxford e che mai più lasciò. A Jesi aveva la sua casa e il suo giardino, una famiglia piena di affetti profondissimi, da ultimo il nipotino tanto amato, e gli amici. L’economia era lì, vicinissima e tangibile, di una terra amata, e assurta negli anni Ottanta, grazie alla scuola di Fuà, a modello mondiale; quel modello NEC (Nord Est Centro) di cui Giuliano parlava, proprio come faceva Fuà, sapendo esattamente dietro le statistiche che volti c’erano, che capannoni c’erano, e che problemi andavano affrontati ogni giorno.
Del grande economista egli tuttavia aveva anche la freddezza impietosa nell’analisi. L’ultimo lavoro che abbiamo fatto insieme era sulla questione della produttività nel settore manifatturiero, lo spunto essendo il convegno per il decennale della morte di Giorgio Fuà (ne abbiamo scritto per «il Mulino», sull’ultimo numero dell’anno scorso). Abbiamo ripensato appunto al modello NEC trent’anni dopo. La discussione fra me e lui era curiosa, con una certa propensione, da parte mia, a una visione un po’ apologetica di quel modello, che mi serviva per sottolineare i pregi strutturali di un sistema di media impresa dinamica, la cui forza strutturale spiega ancora la durevole performance, altrimenti incomprensibile, delle esportazioni italiane, anche recenti. Giuliano avrebbe potuto ben adeguarsi a una tesi molto pro-modello marchigiano; ma guardava con comprensione (che tuttavia non apprezzava fino in fondo) le mie esuberanze polemiche (antidecliniste); buttava acqua sul fuoco, e mi costringeva a un esercizio continuo di ripensamento, confronto con numeri ed evidenze: con lui non c’era possibilità di sottacere, o minimizzare, evidenze non coerenti con una qualsiasi tesi di fondo pre-costituita. È stato bello discutere con lui, e aveva quasi sempre ragione. Condividere un lavoro con lui, come è stato in quest’ultimo articolo scritto insieme, significava avere la certezza che il risultato finale sarebbe stato assai migliore rispetto a una scrittura solitaria.
In quel metodo di lavoro c’era il Giuliano Conti economista e maestro. Di Giuliano tutti noi che lo abbiamo conosciuto ricordiamo, e citiamo dopo poche parole, la dolcezza. Non è un termine usuale per definire una personalità comunque forte e sicura. Ma è il termine che ho sentito ripetere di più da tantissimi che gli hanno voluto bene, come in un passaparola. Dolcezza unita al rigore di vita e di scienza, alla coerenza intransigente negli affetti e nei valori. Un grande professore, una vita preziosa.
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