La prima domanda da porsi è se di una riforma del genere vi sia bisogno. È sufficiente la rilettura dell’intervista del 1984 di Scoppola ed Elia a Dossetti e Lazzati, edita dal Mulino venti anni dopo, per rispondere affermativamente. Ognuna delle due parti, Dc e sinistre, temeva il futuro 18 aprile dell’altra: da qui la convenienza comune a varare un governo debole. Basti anche uno sguardo comparatistico alle altre due Costituzioni di grandi democrazie dello stesso periodo, quella della Francia della Quarta Repubblica (1946) e la Legge fondamentale di Bonn (1949) per farsene un’idea. Entrambe, a differenza della nostra, costruiscono un vertice del governo che non è solo un primus inter pares, ma che è anche e soprattutto un superiore gerarchico: il rapporto fiduciario si instaura da una sola Camera esclusivamente con lui e non con l’intero governo, vi è la possibilità di richiedere la revoca di un ministro e non solo la nomina, è costituzionalizzata esplicitamente la questione di fiducia e in caso di bocciatura è aperta la strada per il premier a richiedere elezioni anticipate, è resa più difficile l’approvazione di una mozione di sfiducia.
Ricorre talora un’obiezione che risale agli anni in cui alcuni aspetti della seconda parte (Corte costituzionale, referendum, Regioni) non erano ancora stati attuati, quella secondo cui prima di riformare ci sarebbe da attuare. Ora, posto che appunto questa impostazione aveva un suo valore forte prima del disgelo costituzionale proprio per obiettive lacune di attuazione, c’è comunque una parte di verità permanente in questo approccio: i principi esigenti della prima parte della Costituzione richiedono sempre aggiornamenti dei mezzi con cui essi sono stati incarnati da scelte organizzative, nella seconda parte e nella normativa sub-costituzionale. Tuttavia, proprio questa verità permanente fa capire che attuazione e revisione non si oppongono. Come è pensabile questa azione di aggiornamento con governi deboli e instabili? Per di più la crescita di importanza dell’Unione europea aggiunge un ulteriore elemento: anche se problemi di frammentazione hanno investito tutte le principali democrazie dell’Unione con coalizioni più complesse (come ha analizzato puntualmente Carlo Fusaro), non di meno gli esecutivi con cui il nostro governo è chiamato a collaborare continuano a essere di norma governi di legislatura guidati dal leader del primo partito delle rispettive coalizioni, indicato agli elettori prima del voto. Durata di legislatura e forza della legittimazione diretta (non elezione diretta) restano caratteristiche comuni. Come se non bastasse i nostri esecutivi dagli anni Novanta devono anche fare i conti con sindaci e presidenti di Regione eletti direttamente per cinque anni e dotati di maggioranze consiliari garantite.
Quindi al primo quesito va data una risposta affermativa netta: una riforma della forma di governo è necessaria.
Bisogna a questo punto rispondere a una seconda domanda ben più sottile: pur essendo vero al momento dell’intervista di Elia e Scoppola a Dossetti e Lazzati che l’istituzione governo andasse rafforzata, siamo sicuri che questo obiettivo, al netto della questione dell’instabilità, non sia già stato conseguito? In fondo le nostre cronache politiche ci parlano di abuso di decreti, fiducie a ripetizione, monocameralismo di fatto, di maxi-emendamenti governativi e così via. Ora, posto che la questione della stabilità resta un problema, come pure il ricorso anomalo a frequenti esecutivi cosiddetti tecnici, l’argomento non è fondato. Queste scorciatoie esistono ma, come ha puntualmente rilevato Augusto Barbera nel suo ultimo scritto prima dell’elezione a presidente della Corte costituzionale, non possiamo ritenerle indicatori della forza del governo, quanto piuttosto della sua debolezza e, soprattutto, non possiamo considerarle positive. Solo che per poterli rimuovere, in quanto del tutto anomali rispetto alle altre grandi democrazie parlamentari, senza causare paralisi di sistema, dobbiamo in loro vece introdurre i poteri fisiologici delle altre Costituzioni. Poteri che, nel frattempo, sono stati riproposti con sostanza simile nelle Costituzioni successive, come quella svedese e spagnola.
Quindi al secondo quesito va data una risposta chiaramente negativa: siccome va perseguita una riforma analoga a quanto è stato fatto nelle altre democrazie parlamentari efficienti e non confermate le attuali modalità anomale in cui è avvenuto il rafforzamento del governo in modo surrettizio ai danni del Parlamento, non è ragionevole ritenere lo status quo risolutivo.
In Italia mancava (e manca) il presupposto chiave per adottare sistemi proporzionali senza predeterminazione delle alleanze davanti agli elettori
La terza domanda a questo punto è se vi siano delle elaborazioni a cui rifarsi. Ora, sin dall’inizio degli anni Novanta per la forma di governo nazionale il dibattito tra chi ha ritenuto necessaria una riforma ha oscillato sostanzialmente tra sostenitori di una forma neo-parlamentare e una di tipo semi-presidenziale. Nel primo caso per le norme costituzionali si è variamente fatto riferimento a quelle tedesche, spagnole o svedesi e per le leggi elettorali a formule con effetto maggioritario. Bisogna infatti tener presente, come già avvertiva negli anni Ottanta su questa rivista Roberto Ruffilli, che in Italia mancava (e manca) il presupposto chiave per adottare sistemi proporzionali senza predeterminazione delle alleanze davanti agli elettori: nelle esperienze tedesca, spagnola, svedese è considerata pacifica convenzione costituzionale (forse potremmo parlare anche di consuetudine) il fatto che la coalizione riconosca come primo ministro il leader che il primo partito della medesima ha indicato agli elettori prima del voto. Tra la legge elettorale e le norme costituzionali c’è questo decisivo elemento di congiunzione che crea un raccordo stringente tra consenso, potere e responsabilità.
Si può quindi parlare di una forma neo-parlamentare in cui il rapporto fiduciario giuridico propriamente detto, che inizia nella Camera, è preceduto da un’indicazione fiduciaria che parte dagli elettori. In Italia, viceversa, questa convenzione non era accettata nel primo sistema dei partiti e ha continuato a non esserlo anche nel secondo, quando le elezioni non hanno dato un risultato chiaro: basti pensare agli ultimi due casi, il governo Letta nella legislatura iniziata nel 2013 e il governo Conte 1 nel 2018. Per avere quindi risultati identici a quelli tedeschi, spagnoli e svedesi, si può valutare quali di quelle norme costituzionali siano mutuabili nel nostro Paese, ma non le si può abbinare ai sistemi proporzionali lì vigenti. Vi è bisogno di sistemi selettivi che risolvano il problema della legittimazione popolare della premiership: per questo la Tesi 1 dell’Ulivo e il testo Salvi sul premierato alla Bicamerale D’Alema a nome dell’intero centrosinistra poggiavano su sistemi elettorali selettivi e sull’indicazione esplicita dei candidati primi ministri sulla scheda elettorale. Sono rimaste sempre minoritarie sia le proposte di clonazione in blocco di quei sistemi (elettorali e costituzionali) – perché questa scelta a causa della proporzionale e senza la convenzione condivisa sulla premiership non ci avrebbero portato in Germania, in Svezia o in Spagna ma ci avrebbero mantenuto in un’anomalia italiana – sia, all’opposto, le proposte estreme di adottare il medesimo meccanismo di Comuni e Regioni, imperniato sul simul stabunt simul cadent tra vertice dell’esecutivo e assemblea che appare troppo rigido per un livello nazionale.
La risposta al terzo quesito deve essere quindi chiara: esiste un bagaglio di elaborazione sul premierato che si basa sul combinato disposto di sistemi elettorali a effetto maggioritario con indicazione pre-elettorale del premier e di norme costituzionali tratte dalle democrazie parlamentari efficienti.
Si può quindi passare a una quarta domanda: rispetto a queste elaborazioni, il progetto di legge del governo è una conferma o una rottura? Gli elementi di rottura sono prevalenti e indubbi, al netto dell’unica scelta saggia effettuata, quella di non partire da approcci astratti, che avrebbero potuto spingere verso il semipresidenzialismo francese. Tenendo conto dei risultati delle elezioni con i quali si è ritornati a una legittimazione diretta del governo, a un funzionamento neoparlamentare della forma di governo, la maggioranza ha ritenuto di scegliere il premierato nell’ottica per cui il diritto nasce dal fatto, è chiamato a perfezionare dinamiche reali pre-esistenti, che è il vero argomento risolutivo rispetto all’alternativa semi-presidenziale, di per sé pienamente legittima e argomentabile. Sarebbe infatti eccessivo arguire dalle difficoltà del secondo quinquennato di Macron e del governo Borne di maggioranza relativa un bilancio tutto negativo della forma di francese, dato che di analoghi problemi soffrono anche, a causa della maggiore frammentazione che investe tutti i sistemi, l’eterogenea maggioranza del nuovo governo Sanchez, anch’esso di maggioranza relativa, come pure il governo Kristersson nonché l’eterogenea coalizione tripartita di Scholz che dà più di un segno di cedimento.
Tenendo conto dei risultati delle elezioni con i quali si è ritornati a una legittimazione diretta del governo, la maggioranza ha ritenuto di scegliere il premierato nell’ottica per cui il diritto nasce dal fatto
Tranne questo elemento di pragmatismo tutto va nel segno di una rottura. Anzitutto nel metodo: contrariamente alla logica di consenso che dovrebbe prevalere sulla materia costituzionale, il governo ha proceduto all’approvazione di un suo disegno di legge. Il governo Renzi aveva sì fatto un’analoga scelta, ma preceduta da un accordo di merito con l’opposizione di centrodestra, il cosiddetto Patto del Nazareno: non si tratta quindi della ripetizione di un precedente, ma di una forzatura, a cui si abbina il frequente richiamo al referendum confermativo finale, quasi dando per scontato ciò che scontato non dovrebbe essere, ossia che non vi possa essere l’accordo a due terzi su un testo condiviso che precluderebbe il referendum. La rottura è individuabile anche nel contenuto giacché, anziché partire dall’attribuzione dei poteri analoghi agli altri primi ministri europei, si è in sostanza puntato solo su un’elezione diretta formale del premier, nell’idea che i poteri possano poi essere presi di fatto in forza di essa. Scelta anomala ed errata a cui si accompagnano anche pesanti incongruenze interne, come la staffetta tra un primo e un secondo premier, quest’ultimo non eletto, ma dopo il quale ci sarebbero solo elezioni. In altri termini il secondo premier, non eletto, avrebbe più poteri del primo, eletto direttamente, il quale avrebbe come via d’uscita per potersi rafforzare solo creare una crisi apposta per succedere a sé stesso e realizzare quindi un’unione personale tra la figura del primo e quello del secondo premier. Del tutto anomala anche un’elezione diretta formale con trascinamento di una maggioranza assoluta di seggi senza previsione di soglia minima e quindi di ballottaggio.
Per rispondere al quarto quesito si tratta quindi di una rottura negativa per unilateralità di metodo e anomalia di contenuti. Appare invece dotata di coerenza interna la proposta di poco precedente di Italia Viva, che però ricalca troppo rigidamente le soluzioni adottate per Comuni e Regioni.
La quinta domanda riguarda il che fare da parte delle opposizioni parlamentari che a distanza di alcune settimane non sono state ancora in grado di produrre un testo alternativo. C’è ovviamente una parte di classe politica e di costituzionalismo ansiogeno che non condividono la ricostruzione qui proposta, in particolare sul primo quesito, e che propongono puramente e semplicemente il rifiuto del confronto. Una posizione speculare a quella tenuta sinora dalla maggioranza, la quale, a sua volta, sembra disponibile a correzioni ma solo dentro il suo perimetro, nella convinzione di poter vincere agevolmente il referendum, magari chiedendo alla Lega di rinunciare all’anomalia del secondo premier in cambio di un’accelerazione del disegno di legge sull’autonomia differenziata. Se però nel corso di un iter che non è poi così breve la maggioranza dovesse avere un ripensamento, o per influsso di minoranze interne convinte che la materia costituzionale non possa essere trattata come un qualsiasi altro tema ordinario o, più probabilmente, perché un esito referendario positivo potrebbe considerarsi a un certo punto non scontato, occorre essere sin d’ora pronti a quel compromesso ragionevole che appartiene al Dna delle medesime forze di opposizione, ossia legge elettorale selettiva con indicazione pre-elettorale (non elezione) del premier e norme costituzionali su fiducia, sfiducia, revoca e scioglimento tratte dalle democrazie parlamentari efficienti. A questo fine sono stati presentati nel dibattito pubblico due progetti, uno da parte del sottoscritto nel corso dell’assemblea di “Libertà Eguale” di Orvieto dello scorso novembre e uno del gruppo Quagliariello-Calderisi-Polito e altri sul “Corriere della Sera”. Da lì si potrebbe ripartire.
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