“Le aquile non le trovi a stormi. Devi cercarle una a una”. L’aquila naturalmente era lui, Ross Perot, anche se la piccola statura, le spalle strette, le orecchie a sventola e la voce stridula che rovinava la larga parlata texana ne facevano un bersaglio perfetto per vignettisti e imitatori. Non aveva torto Perot a tenere questo slogan inciso su una targa nel suo ufficio assieme ai suoi riferimenti primi, i ritratti di Theodore Roosevelt, il piccolo, pugnace, roboante presidente di inizio Novecento che lanciò gli Stati Uniti nel club delle grandi potenze, e di George Washington, da cui tutto – tutto – ebbe origine, e una serie di originali di Norman Rockwell, l’icona degli illustratori, le cui tavole pubblicate durante la Seconda guerra mondiale sul «Saturday Evening Post» in cui esaltava con un realismo sorridente e dolce la grandezza umana e calda delle famiglie americane e dell’America con esse, sono ancora, benché rétro e politicamente scorrette ai nostri giorni, fra le immagini più note della cultura popolare d’oltreoceano. Aveva ragione a vedersi come un’aquila questo figlio di un piccolo mercante di cotone nato nel 1930 a Texarcana, una sperduta cittadina del Texas profondo, miliardario già negli anni Settanta con l’azienda di software da lui creata, uno dei 100 uomini più ricchi d’America, filantropo, poi candidato alle presidenziali nel 1992 e nel 1996 con un proprio partito. Incarnazione del mito americano del self-made man. Morto il 9 luglio scorso, tanti lo considerano il Giovanni Battista che ha annunciato l’arrivo del Salvatore, Donald Trump.
Le cose sono più complicate; ma avvicinare le due figure e i due momenti è suggestivo anche se un vero paragone non regge. Certo, negli anni Novanta Trump fu vicino a Perot ed entrò nel suo Reform Party tanto da cercarne la candidatura alle presidenziali nel 2000; ma Perot fece di tutto per impedirglielo e Trump si disamorò della cosa. L’avversione di Perot va capita dal momento che Trump ne condivideva le idee cardine. L’avversione per Washington in primis, cioè per la classe politica e per i lobbisti, i faccendieri, i mestatori che rendevano fetida la capitale. Un atteggiamento strano per dei businessmen sempre in contatto con la politica; ma spiegabilissima per chi, pur ricchissimo, “non apparteneva” come il palazzinaro di Queens Trump o l’uomo inchiodato al suo Texas profondo, Perot. “Insurgents”, insorti entrambi contro un establishment di cui non facevano parte. Trump seguiva Perot anche nella sua avversione a ogni trattato di libero scambio e in particolare al Nafta, l’accordo con Canada e Messico che per Perot avrebbe tolto lavoro agli americani spingendo le imprese a delocalizzare. Su questo i due uomini erano d’accordo e Trump a queste idee è sempre rimasto fedele; ma Perot, pur essendo fra i pionieri e fra i vincenti del business più avanzato, quello dell’informatica, e pur maneggiandone abilmente i meccanismi, così come sapeva maneggiare le frequenti apparizioni in tv, era uomo di paese, anzi, di strapaese. L’iperpatriottismo che lo portava a fare un idolo di Theodore Roosevelt aveva il gusto fiabesco delle tavole di Rockwell con le sue famiglie bianche middle class che il New Deal aveva salvato dalla distruzione, le case dalle tendine stirate e i ninnoli vezzosi, le mamme giovani e in salute, inappuntabili nelle vesti morigerate che ne sottolineava la moralità, i patriarchi, padri, nonni, con i bambini ben nutriti che pendevano dalle loro labbra sagge. Un po’ autoritari per dovere, non per inclinazione, come era lui con i suoi dipendenti, che pagava bene, ma da cui pretendeva assoluta fedeltà coniugale così come rasature perfette e capelli tagliati corti e, per le donne, niente calzoni – a meno che non facesse un gran freddo. Così non è Donald Trump, l’uomo che, partito già ricco da Queens del padre costruttore di mediocri case di edilizia pubblica, volle conquistare il regno dei cieli di ogni newyorkese, Manhattan, e riuscì ad erigervi un immenso, nero, lucente grattacielo da Gotham city a cui diede il suo nome, la Trump Tower. Tutto oro all’interno come il serbatoio dei dollari di Paperon de’ Paperoni. Fedifrago, insolente, sfacciato, bisognoso di umiliare, amante del rischio, fallito più volte, però sempre risorto con nuove idee, nuove avventure. Uomo da stracittà, anzi, da metropoli. Il numero uno che ha tutto e crede di aver tutto anche nella sconfitta, un io enorme e sfrontato. Non poteva che diventare presidente; null’altro lo avrebbe fatto credere “arrivato”.
Diversissimi Perot e Trump; ma il 19% dei voti che Perot prese nel 1992 erano il sintomo di un’onda che cominciava a mangiare la terraferma di un Paese che aveva partiti forti, non centralizzati, ma con solide strutture negli Stati e con élite in Congresso riconosciute e inamovibili. C’era una larga fascia di elettori scontenti là fuori, sparsi in tutto il Paese, quelli della destra religiosa ai quali Reagan non era bastato, gli operai di un’industria in trasformazione e dai sindacati sempre più deboli che si sentivano sempre meno middle class, quelli delle grandi campagne e dei piccoli centri che non assomigliavano più alle tavole di Rockwell. Un’America in subbuglio che stentava a riconoscersi nelle forme politiche esistenti e in una vincente cultura urbana tanto aspra e rampante quanto ormai avulsa da ogni tradizione e che cercava il rapporto diretto, proprio di ogni populismo, con un’immagine inamovibile di se stessa da leggere nel volto di un leader. Perot non poteva andare da nessuna parte — i terzi partiti sono sempre stati sconfitti col sistema elettorale d’oltreoceano —; ma un americano su cinque per Perot voleva dire qualcosa anche se quel qualcosa venne travolto dall’orgia politica ed economica del potere americano degli anni Novanta. Nel 1996 Perot ottenne soltanto l’8% dei voti. Il 2001 creò poi una union sacrée nazionale alla quale il torrente turbinoso che scorreva nel profondo della società non poté non aderire e che trovò un porto nel “conservatorismo compassionevole” di Bush jr. Sappiamo che il 2008 e l’elezione di Obama lo fecero riemergere fino a giungere al fatidico 2016.
Nel 2016 non c’era più Ross Perot, ormai ritiratosi dalla politica. Tuttavia Perot non esitò ad appoggiare Donald Trump quasi a voler rinverdire il populismo à la Rockwell in un mondo del tutto nuovo e Trump ha vinto da populista anche se come leader populista fa ridere; però ha vinto. In lui pare esserci un mélange assurdo; ma è il 2016 a essere strano o, forse, lo siamo noi. Siamo strani perché ancora legati all’immagine di un’America eterna dal bipartitismo razionale, con un Congresso i cui membri fanno accordi con l’altro partito mantenendo così un fluido equilibrio, e un meliorismo tecnocratico che riflette i valori di fondo della società sia lo si declini con la proboscide dell’elefante che con le orecchie dell’asino, animali solidi e saggi entrambi. Però questa è l’immagine dell’America uscita dal New Deal e dalla Guerra mondiale, quella dei primi decenni della Guerra fredda, quella, anche, di ciò che l’America vuol essere tormentata com’è dal radicalismo che la pervade. Gli Stati Uniti hanno una storia di populismi estremi e di rivolte fin dalla prima metà dell’Ottocento la cui verità incriniamo dicendo soltanto che oltreoceano non si amano i governi e le burocrazie. L’America politicamente, anche se non socialmente stabile è stata l’America di una quarantina d’anni, dal trionfo elettorale di Roosevelt nel 1936 alle dimissioni di Nixon nel 1974. Il resto è una trottola di conflitti nei partiti e nel Paese, dalla Guerra civile alla rivolta agraria populista di fine Ottocento, ai populismi autoritari e di destra dei primi anni Trenta, alla Nuova sinistra e alle rivolte nere dei Sessanta, alle ancora ben vive guerre culturali dei Novanta che si sono tutti coagulati in movimenti di ogni tipo, populisti e non, alla caccia del “vero” senso della nazione.
E l’eterno populismo americano è riemerso nel 2016, incattivito da un mondo che spariglia le carte, travolge le classi e i gruppi sociali, fa soffrire tanti mentre eleva i pochi. Un mondo in realtà e in buona parte prodotto dalle scelte di chi ha potuto incidere; ma oggi ogni equilibrio è saltato ed è nata una rivolta anni Duemila. Quella che vede l’America del buon senso e delle buone maniere, dei vecchi diners da pancakes e uova con la pancetta sfrigolante, rinverdita e riflessa nel volto di un miliardario la cui testa non è tanto a Washington quanto ancora nel Queens delle battaglie a sangue fra palazzinari; ma che a modo suo ha capito che la globalizzazione fa soffrire chi non la governa a proprio vantaggio. E il suo modo è quello di rievocare l’America antica che si sentiva sicura protetta dai grandi oceani, che si sentiva amata dal Dio dei cristiani, che vedeva nell’universo bianco l’universale, che credeva a occhi chiusi nel buon americano che sparge nel mondo la cornucopia dei propri beni e si pretendeva unica. Ecco il trucco del 2016, l’ironia della storia, creare un leader che appartiene all’America aspra che ama l’azzardo, disprezza chi non vince, impone il businessman come figura cardine della società, ma diventa l’icona di un populismo innamorato di un’America ormai travolta. Ross Perot, nonostante tutto, era un populista più vero.
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