I precari possono essere considerati un gruppo sociale o la precarietà è una condizione individuale? Quali politiche si possono mettere in atto? Maurizio Ferrera risponde a questi interrogativi ne La società del Quinto Stato (Laterza, 2019) un libro agile per numero di pagine e stile di scrittura, in cui non si limita a descrivere le trasformazioni in atto nel lavoro, ma presenta anche una proposta di riforma del Welfare.
Più volte Ferrera fa riferimento a La grande trasformazione di Karl Polanyi (trad. it. Einaudi 1974), un volume del 1944 in cui colui che è considerato uno dei padri della sociologia economica si occupa di quella che può essere definita la crisi della società liberale, avvenuta all’inizio del secolo scorso, in particolare a partire dagli anni Trenta. Egli non si limita a sostenere che anche in questi anni stiamo attraversando una fase di profondi mutamenti economici e sociali (per dire questo non sarebbe stato necessario citare lo studioso di origini ungheresi), ma richiama lo schema di analisi utilizzato da Polanyi che aveva ipotizzato l’esistenza di un doppio movimento: il primo, ispirato dal liberismo economico, è caratterizzato dall’espansione del mercato e il secondo (definito anche contro movimento) dalla resistenza, grazie alla domanda di protezione sociale avanzata soprattutto dalla classe lavoratrice.
Tre capitoli del libro sono dedicati ad analizzare i tratti del primo movimento (la fase di espansione del mercato) di quella che viene chiamata la Grande trasformazione 2.0, che è tuttora in corso e le cui caratteristiche sono il passaggio a un’economia post-industriale, la globalizzazione e l’economia digitale. L’attenzione è posta, come si può intuire dal titolo del libro, su un gruppo sociale generato da questi mutamenti e che viene definito “Quinto Stato” in cui rientrano i lavoratori precari. La precarietà riguarda soprattutto i giovani ed è una condizione sociale caratterizzata dall’instabilità lavorativa, dalle scarse protezioni sociali e dalla vulnerabilità economica provocata dalle basse retribuzioni. Ma parlare di Quinto Stato presuppone che la precarietà non sia una situazione transitoria e abbia invece una certa continuità nel tempo.
Definendo i lavoratori precari come Quinto Stato Ferrera si discosta dalla definizione di Guy Standing che in Precari. La nuova classe esplosiva li considera una classe sociale, facendo riferimento alla posizione dei lavoratori precari nel processo produttivo. Quello che secondo Standing li caratterizzerebbe è l’insicurezza del lavoro nelle sua varie dimensioni (ad esempio, dell’occupazione, del posto di lavoro, del ruolo professionale, del reddito ecc.). Per Ferrera, invece, sono un ceto: un gruppo sociale accomunato dalla condizione sociale e più precisamente dalla vulnerabilità e dall’insicurezza. Inoltre è improprio parlare di classe sociale visto che si tratta di un gruppo sociale fluido, piuttosto eterogeneo al suo interno e con un basso grado di politicizzazione. Un'affermazione, quest’ultima, che non appare del tutto convincente. In fondo, lo stesso Standing scrive che il precariato non ha già una consapevolezza di classe, ma è una classe in divenire.
Indipendentemente dal fatto che i precari siano uno stato/ceto o una classe, un punto su cui c’è convergenza è che la precarietà provoca un forte ridimensionamento delle tutele e dei diritti conquistati dai lavoratori nel corso del Novecento grazie anche all’azione collettiva del movimento operaio. Molti rischi sociali che erano coperti dal Welfare vengono ora trasferiti sull’individuo. Si può parlare di una sorta di lato oscuro della flessibilità, pensando a tutta la letteratura che ne enfatizza solo gli aspetti positivi per le organizzazioni e per il lavoro.
La stessa economia digitale, oltre a opportunità in termini di organizzazione del lavoro, genera dei rischi sociali. Non solo quelli legati alla sostituzione del lavoro con le macchine, come ipotizzato da alcuni studiosi (scenario che andrà verificato, ma che si può immaginare potrà divenire più articolato di come viene spesso presentato), ma quelli di un’economia in cui si diffondono i “lavoretti” (gig economy) e in cui nell’intermediazione del lavoro centrale è il ruolo svolto dalle piattaforme online e delle app, come nel caso dei fattorini di consegne a domicilio e di Uber.
Alle insicurezze generate dai mutamenti economici si aggiunge che la mobilità sociale che, insieme alle politiche di Welfare, ha contribuito a ridurre le diseguaglianze sociali, si sta contraendo. La paralisi della mobilità, secondo Ferrera, fa sì che i solchi fra uno strato sociale e l’altro siano più profondi.
Dopo aver delineato i tratti del primo movimento, il libro si sposta su quello che si può considerare il secondo o il contro movimento. Gli ultimi due capitoli sono infatti dedicati a delineare una possibile strategia di risposta alle nuove sfide. Quanto mai necessaria visto che l’intreccio fra insicurezza economica, impoverimento e risentimento politico, fortemente accentuatosi soprattutto dopo la crisi del 2008, rischia di destabilizzare le democrazie anche più consolidate. Anche se va notato che il risentimento politico che alimenta il populismo sovranista sembra riconducibile a quella che sinteticamente può essere definita la radicalizzazione politica del ceto o della classe media, che vede peggiorare o sente minacciata la propria posizione sociale, e non dei precari.
Anche al giorno d’oggi il secondo movimento deve rispondere alla domanda di protezione sociale. Ferrera in un capitolo analizza due delle proposte più discusse nel dibattito sul Welfare: da un lato, quella del Welfare come investimento sociale che punta sull’assistenza alla prima infanzia, sull’istruzione, sulla formazione iniziale e continua, sulla conciliazione lavoro e famiglia e sull’inclusione sociale e, dall’altro, il reddito di base universale e incondizionato. Entrambe presentano problemi di sostenibilità economica visti i costi e la difficoltà ad alzare la pressione fiscale.
Per questo motivo Ferrera presenta un progetto definito di Riformismo 2.0. Innanzitutto, mentre il Welfare ha risposto a bisogni che derivavano dalla posizione sociale che i vari gruppi occupavano nella struttura sociale, ora è necessario considerare le situazioni che le persone si trovano a vivere e che dipendono da aspetti come la condizione familiare, quella professionale, il profilo economico, istituzionale e sociale del territorio di residenza, la fase del ciclo di vita, per citarne alcuni. Quindi è necessario, innanzitutto, identificare chi sono i soggetti o i gruppi più esposti ai nuovi rischi sociali. Poi il Welfare deve rispondere alla sfida delle opportunità. Che, però, va ridefinita alla luce dei mutamenti economici e sociali. La domanda centrale per Ferrera è “come trasformare i cambiamenti in atto da fonti di rischio a moltiplicatori di opportunità e come ampliarne l’accesso da parte di tutti, in modi equo” (p. 109). Il capitolo affronta vari temi, come i meccanismi di selezione sociale, la necessità di un universalismo differenziato che tenga conto dei fattori situazionali, il passaggio dai diritti sociali alle garanzie sociali, che combinino protezione e promozione sociale. Dal punto di vista istituzionale è fondamentale che l’Unione europea superi la crisi attuale e valorizzi la dimensione sociale e non solo quella economica, come è avvenuto fino ad oggi.
Ferrera conclude il libro affermando che l’attuazione del Riformismo 2.0 richiede una forza politica e leader con un’agenda ambiziosa e di largo respiro, due condizioni, però – ed è difficile non trovarsi d’accordo con l’autore – che al momento si fatica a intravvedere.
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