Il 9 agosto è stato pubblicato il tanto atteso Sixth Assessment Report dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni unite. È il rapporto più esaustivo prodotto finora e il più preoccupante. L’obiettivo di limitare le emissioni a 1,5 gradi stabilito dall’accordo di Parigi sul clima del 2015 è ormai superato dai fatti. Se non si prendono azioni drastiche l’aumento della temperatura potrebbe superare i 4 gradi rispetto all’era preindustriale, con conseguenze devastanti. A questo punto, l’obiettivo realistico è limitare l’aumento della temperatura a un massimo di 2 gradi, il che avrebbe a ogni modo conseguenze molto pesanti.
Se il rischio di estinzione evocato da gruppi di attivisti come Extinction Rebellion appare esagerato e politicamente controproducente, la prospettiva è quella di un pianeta dove sarà assai più difficile vivere. E soprattutto dove sarà difficile vivere in pace, dato il modo in cui il cambiamento climatico rischia di generare ondate di rifugiati climatici e scatenare una competizione per le risorse. Le parole di Antoni Guterres segretario generale dell’Onu – «questo rapporto è una campana a morto per carbone e combustibili fossili, prima che distruggano il nostro pianeta» – più dure di quelle dei suoi predecessori, riflettono un crescente consenso nel mainstream politico ed economico rispetto alla necessità di accelerare sulla transizione.
In un tempo in cui il negazionismo sul clima è ormai marginalizzato alle lobby delle compagnie petrolifere e fanatici del mercato senza regole, c’è una forte massa critica che spinge per una transizione rapida. Di fatto, anche ampi settori del mondo del business guardano con interesse alle opportunità di profitto che offre la transizione post-carbon. Da Elon Musk, capofila nel nuovo settore delle auto elettriche, a iniziative come il Climate Group, che riunisce 300 multinazionali e la Climate Pledge, che promette di azzerare emissioni entro 2040, sottoscritta da compagnie come Amazon, Visa, Pepsi e Heineken.
C’è ormai un consenso ampio rispetto alla necessità di agire in fretta. Ma non sarà certo il mercato a risolvere il problema epocale che abbiamo di fronte. Il cambiamento climatico è il classico problema per cui “non ci sono soluzioni di mercato”
Ma non sarà certo il mercato, né un cambiamento degli stili di vita, a risolvere il problema epocale che abbiamo di fronte. Il cambiamento climatico è il classico problema per cui «non ci sono soluzioni di mercato». Di fatto si è perso molto tempo utile sperando invano in tali soluzioni. Basti pensare al sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Emissions Trading System), considerato da molti come un fallimento, visti anche i prezzi risibili per comprare diritto a inquinare.
La logica di mercato e il meccanismo del prezzo su cui esso poggia non sono efficaci per un bene pubblico come il garantire un ambiente vivibile. Dopo decenni di egemonia neoliberista e credo nel «mercato che si autoregola» nelle scelte di politica climatica si stanno affacciando forme di interventismo statale a lungo abbandonate. Solo uno Stato interventista, può mettere in campo il coordinamento strategico ad ampia scala e mobilitare le risorse necessarie a vincere la sfida.
Uno degli effetti della pandemia, come ho cercato di argomentare nel mio ultimo libro è stata proprio il ritorno dell’interventismo statale. Per decenni il neoliberismo ha sostenuto la narrazione, in certi casi non del tutto priva di fondamento, di uno Stato inefficiente e sprecone. Salvo poi scaricare costi sulla collettività e ricorrere a denaro pubblico per i salvataggi delle imprese. Dopo la crisi del 2008, che ha svelato la fragilità della globalizzazione e del sistema finanziario, il decennio 2010 è stato dominato da misure di austerità altamente impopolari e da una stagnazione con pochi precedenti dall’inizio della storia del capitalismo. Questo fallimento economico e politico ha dato nuovo credito al nemico giurato del neoliberismo: l’interventismo statale.
Per molti anni a venire il mercato sarà di fatto sovrastato dall’ombra di grandi piani di investimento statale, come il Recovery Fund europeo e i programmi più ambiziosi lanciati dagli Stati Uniti. Del resto pure l’ascesa di Elon Musk, nuovo eroe-imprenditore, è stata alimentata da appalti pubblici della Nasa
Durante la pandemia, abbiamo assistito a una mobilitazione statale senza precedenti negli ultimi decenni: lockdown, grandi campagne di vaccinazione e grandi piani di stimolo e investimento hanno ribaltato l’immaginario politico su cui si reggeva il neoliberismo. Se alcuni fautori del libero mercato sperano che si tratti solo di una fase eccezionale prima del ritorno ai fasti degli anni Novanta e primi Duemila, è evidente che sono in corso cambiamenti strutturali nella sfera economica. Per diversi anni, se non decenni a venire, il mercato sarà di fatto sovrastato dall’ombra di grandi piani di investimento statale, come il Recovery Fund europeo e i programmi più ambiziosi lanciati dagli Stati Uniti.
Nel nuovo liberalismo progressista di Biden – per distinguerlo da un «neoliberismo» che di nuovo ha ormai ben poco e appare sempre più come una sorta di «paleoliberismo» – il mercato non è più visto come uno spazio autonomo ma come l’oggetto di decisioni politiche volte a dettarne il comportamento e a invertire la tendenza verso la corsa al ribasso nei salari e nelle condizioni di lavoro che hanno offerto alla destra reazionaria di Trump e Salvini nuovi spazi di consenso presso la classe operaia e la classe media precarizzata.
Questo ritorno dello statalismo è ancora più evidente sul fronte della lotta al cambiamento climatico un’enorme «esternalità negativa» prodotta dal capitalismo globale. Dopo decenni di immobilismo, l’avvento della pandemia ha propiziato grandi piani di investimento statale ai fini di mitigazione del riscaldamento globale (ridurre emissioni) e adattamento (proteggere centri abitati, infrastrutture, habitat umano). Se si parla molto di transizione energetica gli interventi di adattamento al cambiamento climatico sono molto urgenti e richiedono per loro natura intervento massiccio dello stato. Basti pensare a investimenti contro il dissesto idrogeologico, la costruzione di barriere costiere per fare fronte a innalzamento del livello del mare (già aumentato di 20 centimetri e che continuerà a aumentare per secoli), interventi contro incendi, desertificazione e allagamenti. Le alluvioni di questa estate in Germania e il modo in cui hanno costretto anche la Cdu a promettere investimenti, sono una spia di quello che probabilmente ci attende negli anni a venire.
A sinistra c’è chi parla di un Leviatano climatico, come Geoff Mann e Joel Wainwright, o di un «leninismo ecologico», come Andreas Malm, mentre la «soft left» di Ed Miliband sta dibattendo l’idea di un «go big», con lo Stato visto come protagonista. Ma anche a destra si fa ormai strada la consapevolezza che il futuro richiederà uno «Stato attivista» per usare le parole del premier britannico Boris Johnson.
La strada è un ritorno a una vera pianificazione democratica, in cui lo Stato fissa obiettivi regolativi che poi deve essere il mercato a raggiungere, piuttosto che intervenendo direttamente nella produzione.
Tra tutti i cambiamenti a cui stiamo assistendo nelle policy sul clima forse quello più significativo è il ritorno della pianificazione. Basti pensare agli obiettivi sanciti da diversi Stati, dalla Cina agli Stati Uniti, che puntano a dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro la fine del decennio o ai piani di vietare auto a diesel e benzina. Il governo britannico ha stabilito che dal 2030 si potranno immatricolare solo auto a motore elettrico, mentre Joe Biden ha fissato un più modesto 50% a fine decennio. Per l’Unione europea l’obiettivo è di fermare produzione di auto non elettriche entro il 2035. Assistiamo dunque a un ritorno della pianificazione per lo più indicativa, dunque, in cui lo Stato fissa obiettivi regolativi che poi deve essere il mercato a raggiungere, piuttosto che intervenendo direttamente nella produzione. A sua volta questo ritorno della pianificazione fa il paio con un ritorno prepotente della politica industriale. Basti pensare al modo in cui il governo Johnson è andato attivamente alla ricerca di investitori per costruire una «Gigafactory» (ossia una fabbrica di batterie, componente strategica nella catena del valore delle vetture elettriche), che sarà costruita nella cittadina di Blyth, vicino a Newcastle, nel Nord della Gran Bretagna, guarda caso in un collegio elettorale strappato dai conservatori ai laburisti alle ultime elezioni.
Rispetto a questo cambiamento di orizzonte di politica economica, l’Italia si sta muovendo con molta incertezza. Messo a capo del ministero della Transizione ecologica voluto dai 5 Stelle Roberto Cingolani è stato criticato, a ragione, per mancanza di coraggio e visione strategica. Ha paventato rischi per la cosiddetta Motor Valley in Emilia-Romagna – spingendo al contempo per l’idrogeno, una tecnologia cui a livello mondiale si tende oggi a preferire l’elettrico – invece di chiedere alle aziende italiane del settore di diventare capofila nel comparto delle auto elettriche. Inoltre, ha insistito su necessità di spendere soldi pubblici per rottamazione a favore di auto a benzina o diesel con standard Euro 6, il che di fatto inciderà in maniera limitata sulle emissioni di CO2. Nel complesso, si tratta di una politica basata su agevolazioni e sussidi ai privati più che su una vera politica industriale capace di fare sistema: un gradualismo che è l’esatto contrario della visione sistemica di cui avremmo bisogno in un momento di rapida transizione.
Diversi politici nei Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti sembrano aver cominciato ad accettare che solo un ritorno a un forte interventismo statale può sostenere lo sforzo colossale e garantire la celerità necessaria a evitare gli scenari più cupi tracciati dal rapporto Ipcc. Ma senza dubbio ci saranno enormi resistenze, specie da parte delle multinazionali e dei gruppi di interesse che hanno ricavato enormi profitti da un mondo alimentato dagli idrocarburi. Per garantire una trasformazione rapida del sistema energetico e la protezione da eventi metereologici estremi sarà necessario non solo affidarsi a esperti rispondenti agli interessi dei cittadini e non a gruppi di interesse, ma pure coinvolgere direttamente la popolazione nelle decisioni sul futuro; affinché la pianificazione climatica sia vista non come una scelta tecnocratica, ma come frutto di decisioni democratiche e legittime.
Per garantire una trasformazione rapida del sistema energetico e la protezione da eventi metereologici estremi occorrerà coinvolgere direttamente la popolazione, affinché la pianificazione climatica sia vista non come una scelta tecnocratica ma come frutto di decisioni democratiche
A giudicare dalle reazioni alle forme di direzione e controllo statale durante la pandemia con il proliferare di movimenti no-mask e no-vax il ritorno della pianificazione statale verrà visto da settori della popolazione come un’imposizione inaccettabile. Ma un’altra strada non c’è. Le soluzioni di mercato puro, come il mercato delle emissioni hanno fallito e il cambiamento individuale negli stili di vita non è sufficiente. Per essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte occorre uno Stato pianificatore democratico che sappia approfittare dell’emergenza climatica anche come occasione per affrontare il problema ormai enorme della diseguaglianza sociale.
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