Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Quando, nel dicembre 1991, divennero Stati indipendenti in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica, Russia e Ucraina avevano un tessuto sociale, economico e culturale molto simile, e nel corso degli anni Novanta continuarono a svilupparsi su binari paralleli. In entrambi furono gli oligarchi, spesso ex dirigenti comunisti, ad avvantaggiarsi delle privatizzazioni e a divenire i nuovi padroni, riunendo nelle proprie mani tanto il potere economico quanto quello politico.
È stato al volgere del secolo che questi due Paesi hanno imboccato strade progressivamente divergenti: nel 1999 Vladimir Putin divenne prima capo del governo e poi presidente della Federazione russa con il programma di limitare lo strapotere degli oligarchi e re-instaurare l’ordine e il primato della politica. Se durante il suo primo mandato Putin fu accolto come un salvatore dal disordine malavitoso del decennio precedente, a partire dal secondo si fecero sempre maggiormente chiare e definite le tendenze a elaborare un potere sempre più autoritario e accentrato. L’uccisione di avversari politici e giornalisti e la messa fuori legge di tutte le organizzazioni civili indipendenti sono culminate nella vicenda di Aleksej Naval’nyj e nella chiusura di Memorial, l’associazione fondata da Andrej Sacharov per serbare la memoria del Gulag.
In Ucraina, invece, l’uccisione del giornalista antigovernativo Georgij Gongadze diede origine, tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001, alla prima di una serie di proteste popolari per la democratizzazione e l'attuazione di riforme economiche nel Paese. Nel 1991 la cittadinanza ucraina era stata garantita a tutti i residenti, indipendentemente da quale fosse la loro nazionalità; quasi metà del Paese parlava russo e vi erano dubbi sul fatto che l’Ucraina fosse una nazione in senso pieno. Da quelle prime proteste democratiche la comunità politica ucraina prese a identificarsi con la lotta per la democrazia, così come dimostrarono le vicende della pacifica Rivoluzione arancione del 2004-2005, durante la quale le proteste popolari ottennero un terzo turno elettorale delle presidenziali per mettere riparo ai brogli fatti dal presidente uscente, Leonid Kučma.
Durante il fallimentare mandato del presidente arancione Viktor Juščenko e poi del suo successore filorusso Viktor Janukovyč, l’Ucraina era ancora solo parzialmente sulla via della trasformazione. Il tentativo di Janukovyč di trasformare l’Ucraina in una dittatura simile a quella putiniana provocò una vera e propria rivoluzione, nota in Italia col nome di Euromajdan, perché i manifestanti inizialmente chiedevano maggiore integrazione nell’Unione europea.
Gli ucraini hanno denominato le proteste contro il tentativo di Janukovyč di trasformare il loro Paese in una dittatura simile a quella putiniana “Rivoluzione della dignità”, perché in quell'occasione elaborarono un senso di appartenenza nazionale caratterizzato dalla lotta per la democrazia
Gli ucraini hanno però denominato questi avvenimenti «Rivoluzione della dignità», perché nella guerriglia urbana contro un presidente che cancellava le libertà costituzionali e ordinava alla polizia di sparare sui manifestanti, gli ucraini elaborarono un senso di appartenenza nazionale caratterizzato dalla lotta per la democrazia. La Russia di Putin emergeva così esplicitamente come altro, come l’esempio negativo contro il quale costruire la propria democrazia.
La reazione putiniana finì col confermare questa opposizione identitaria: la Russia invase la Crimea prima e poi le regioni di Donec’k e Luhans’k, trasformando l’opposizione delle aree che supportavano Janukovyč in Repubbliche secessioniste, di fatto organizzate dai servizi segreti della Federazione. L’Ucraina democratica si ritrovò così libera dal dittatore interno, ma coinvolta in una guerra ibrida contro Mosca.
Gli anni di conflitto a bassa intensità non hanno che rafforzato l’identità ucraina: la guerra contro un Paese che fino a poco tempo prima si definiva «fratello» è stata vissuta come un vero e proprio tradimento, a causa del quale le famiglie perdevano i propri uomini arruolati nell’esercito. I sentimenti della popolazione ucraina finirono col radicalizzarsi: sempre più persone decidevano spontaneamente di parlare ucraino al posto del russo e il supporto popolare per l’ingresso nell’Ue e nella Nato, prima incerto, divenne assolutamente maggioritario.
Le elezioni presidenziali che videro vittoriosi prima Petro Porošenko (2014) e poi Volodymyr Zelens’kyj (2019) dimostrarono che il Paese non era più diviso in due metà, così come era stato prima della Rivoluzione della dignità, assicurando maggioranze stabili in Parlamento nel quale la questione centrale non era più la costruzione di una nazione, ormai data per scontata, ma il suo sviluppo al riparo della minaccia russa. Negli ultimi mesi prima dell’inizio del conflitto Zelens’kyj delineò anche un pacchetto di leggi anti-oligarchi, dimostrando che l’intenzione politica di trasformare il Paese in senso democratico era più forte dei suoi stessi legami con quegli interessi economici. Anche se ancora lontano di almeno un decennio, l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e nella Nato poteva ora essere considerato realistico.
Un’Ucraina democratica che aveva conquistato la propria libertà a forza di rivoluzioni liberali era divenuta così l’incarnazione della più grande paura di Putin: l’esistenza stessa dell’Ucraina, che era stata così simile alla Russia, era la dimostrazione che una Russia diversa, più democratica e quindi senza Putin era possibile. Putin e la sua dirigenza hanno iniziato allora a elaborare una versione ideologica della storia nella quale addirittura negavano l’esistenza di una nazione ucraina distinta da quella russa: la leadership putiniana ha perso così la capacità di comprendere come Zelens’kyj, un ebreo russofono, potesse essere un presidente con un amplissimo consenso popolare.
Nonostante l’ammasso di forze accumulato ai confini dell’Ucraina, l’attacco russo partito pochi giorni fa è stato organizzato male, nella convinzione illusoria che lo Stato ucraino si sarebbe sfaldato facilmente sotto la minaccia militare. In realtà, l’esercito ucraino ha dimostrato di essere capace di tenere testa alle truppe russe e Zelens’kyj ha saputo emergere come un comandante coraggioso, rifiutando la possibilità di scappare e divenendo così il nemico numero uno di Putin. Accantonata l’ipotesi di una vittoria veloce con l’instaurazione di un governo fantoccio a Kiev, Putin è rimasto con la sola opzione di continuare una guerra che si prospetta lunga e costosa, anche in termini di vite umane.
Accantonata l’ipotesi di una vittoria veloce con l’instaurazione di un governo fantoccio a Kiev, Putin è rimasto con la sola opzione di continuare una guerra che si prospetta lunga e costosa, anche in termini di vite umane
L’attacco all’Ucraina ha rinsaldato la Nato e l’Ue come mai prima, mentre le sanzioni prese dall’Occidente prospettano una crisi economica che una Russia già in difficoltà non può permettersi. Anche se le forze speciali riuscissero a imprigionare o uccidere Zelens’kyj e a prendere la capitale, la guerra continuerebbe prima apertamente e poi come una guerriglia persino peggiore che nell’Afghanistan invaso dai sovietici: gli ucraini non combattono per il proprio presidente, ma per la propria libertà. Per loro la resa non è un’opzione perché vorrebbe dire arrendersi a un potere che semplicemente nega la loro esistenza. Putin ancora una volta ha compattato con le sue azioni la nazione ucraina e si trova ora senza la possibilità di uscire dal conflitto da vincitore.
Stati Uniti e Unione europea hanno fatto bene a non indietreggiare di fronte alle minacce russe e ad annunciare il sostegno anche militare all’Ucraina: la Russia di Putin ragiona secondo le linee di una politica di potenza che si potrebbe definire ottocentesca e per essere presi sul serio bisogna dimostrare una certa forza. Ora però è necessario che l’Occidente e l’Ucraina escogitino una via d’uscita dal conflitto accettabile per Putin, perché l’alternativa è una guerra nella quale la distruzione del Paese e una quantità enorme di vittime civili sarebbero inevitabili. Salvare la vita degli ucraini sarebbe la vera vittoria di Zelens’kyj.
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