“Andrebbero bocciati, ma alla fine dell’anno metto sei a tutti, così non ho rogne e li rovino per sempre”. Sullo schermo il professore di Storia dell’arte si chiama Fiorito, omonimo all’anagrafe dell’“er Batman” assurto al disonore delle cronache. Lo interpreta Roberto Herlitzka. A lui è affidata la stracchezza della nostra scuola, sull’orlo di un suicidio indotto dall’ignavia e dagli errori dei governi. Il film è Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni, fra i rari titoli italiani non soccombenti al botteghino d’inizio stagione. Dice Fiorito, un Oblomov da vecchio: “Io non combatto la noia, la assecondo”. Piccioni prova a rinverdire, col suo garbo malinconico, il filone aureo che nelle aule metaforizza il clima storico e sociale: dagli archetipi di De Amicis a Mastronardi e don Milani, da Bernardini e De Seta dell’indimenticabile Diario di un maestro ai professori parodiati in Amarcord, da Starnone e Luchetti a Lodoli cui è ispirato Il rosso e il blu.

Ben più del tipico supplente Riccardo Scamarcio o dell’ingessata preside Margherita Buy, è il settantacinquenne Herlitzka a suggestionare lo spettatore con la cifra umbratile e disincantata che ormai lo identifica, lo trasfigura in maschera desolata a petto del Satyricon d’oggidì e lo sublima a involontaria icona della delusione degli onesti e dei savi.

“Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi”, certificava Fellini oltre mezzo secolo fa in La dolce vita. E della salubre amarezza nelle lontane stagioni del boom, in cui a sua volta affiorava alla ribalta con prove da Cechov o D’Annunzio, il segaligno Herlitzka è una scheggia nel tempo, sfuggita all’imperio grottesco dei tempi nuovi. Importante attore teatrale, nel cinema ha invece percorso una tenace carriera da “non protagonista”, che vuol dire interprete defilato, personaggio liminare, fulminea apparizione, talento incline a sottrarsi. D’altronde, è un torinese dalle radici cecoslovacche ed ebraiche, sedimentate nel cognome esotico (da pronunciarsi omettendo la “t” e accentando la “i”), che ha familiarità con l’esodo novecentesco (il fisiologo Amedeo Herlitzka dovette scappare in Argentina per le leggi razziali fasciste del 1938).

Attualmente Herlitzka lampeggia sugli schermi anche in Bella addormentata di Marco Bellocchio, nel ruolo del cinico senatore-psichiatra che ai colleghi parlamentari prescrive i tranquillanti e il disinganno curativo della farsa televisiva: “La vita è una condanna a morte, quindi non c’è tempo da perdere”. Sempre con Bellocchio, una decina di anni fa, aveva dato corpo alla rilettura onirica dell’assassinio di Aldo Moro nel film Buongiorno, notte. Una vena di irrealtà, struggente, viene attribuita allo statista nell’epilogo shock: il prigioniero libero dal covo delle Brigate rosse, in strada all’alba, sereno e smarrito. Il Moro di Herlitzka è una presenza vibrante di assenza, un politico dalla sostanza impolitica, un potente impotente.

“Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli”. Il padre di tutti i dubbi rivive nell’Ex Amleto concepito, diretto e interpretato da Herlitzka nel 2001: scrittura scenica e monologo polifonico che lui ripropone di tanto in tanto. Adesso il lavoro shakespeariano è nel minuscolo teatro romano “Lo spazio” sovrastato da un neon quasi felliniano, spettrale nel buio di un vicolo cieco, al bordo del mercato di via Sannio a San Giovanni. Una sedia per l’“Amleto postumo”, il canonico teschio, la spada, il flauto e uno specchio. “La mia faccia non è rassicurante” dice Herlitzka, il quale sostiene altresì di essere “nato vecchio e rimasto eguale”, cioè un bambino.

Ma nel profluvio di perenne adolescenza di feste grossolane, nei riti dei parvenu di massa, nelle macchiette di Macbeth che ci toccano in politica, Herlitzka incarna - e scarnifica - la necessità del “non essere”. È un carattere insaturo, asciutto, taoista. Per lui sommessamente, e non per celia, proporremmo una nomina quirinalizia a senatore o, almeno, latore a vita della disillusione italiana.