Non è chiaro esattamente che cosa il ministro dell’Istruzione abbia in mente quando dice che anche a scuola bisogna pensare a “prima agli italiani”. Ho il sospetto che sia il solito modo di distrarre dalla mancanza di attenzione per i bisogni della scuola e degli studenti, additando potenziali “colpevoli” nei bambini migranti che sottrarrebbero risorse agli italiani. Trascurando il piccolo particolare che se non ci fossero bambini stranieri molte scuole dovrebbero chiudere, con disagi anche per i pochi italiani, oltre che per molte insegnanti che si troverebbero senza lavoro.
In ogni caso, suggerendo che vi sia un ordine di priorità tra il compito dell’inclusione e quello di considerare “prima gli italiani”, il ministro implicitamente pone in discussione in maniera radicale l’obiettivo principale della scuola: mettere tutti nelle condizioni di sviluppare appieno le proprie capacità, a prescindere dal sesso, dall’origine sociale, dal colore della pelle, dalla cittadinanza. Questa, e non altro, è l’inclusione. Riguarda i bambini stranieri, ma anche quelli italiani. Anche loro, nelle loro differenze e diseguaglianze, hanno bisogno di pratiche e luoghi inclusivi, che non solo li mettano in grado di apprendere, ma anche che li facciano crescere come individui e cittadini.
Anche il capogruppo al Senato del Partito democratico, Marcucci, tuttavia, sembra aver dimenticato quale è il compito della scuola. Nel tweet di censura al ministro ha infatti sostenuto che “a scuola vengono prima la capacità e il merito, non i nostri figli”. Don Milani si rivolterà nella tomba e con lui sussulterà la schiera di pedagogisti e insegnanti che si è dedicata a creare una scuola inclusiva ben prima che questa venisse frequentata anche da alunni stranieri.
A scuola si dovranno certamente misurare anche capacità di apprendimento e lo sforzo per metterle a frutto e migliorarle (il merito). Ma capacità e merito non sono la priorità della scuola. Se mai, le capacità e il loro sviluppo ne sono, appunto, insieme la base di partenza e l’obiettivo. Una base di partenza e un obiettivo che non danno per scontato che tutti entrino nella scuola con le stesse capacità, non solo perché ciascuno è differente, ma perché l’origine sociale, le condizioni famigliari, le comunità in cui si nasce e cresce, rendono diseguali anche nello sviluppo. Compito della scuola, e prima ancora dei servizi per l’infanzia, è compensare queste diseguaglianze creando contesti favorevoli allo sviluppo delle capacità di tutti, ma con una particolare attenzione per chi parte in svantaggio. Per questo anche il merito non può essere misurato allo stesso modo. Perché coloro che corrono liberi e sciolti e hanno chi li sostiene lungo la corsa e coloro che corrono con un handicap, e incontrano continuamente ostacoli lungo la strada, non fanno lo stesso sforzo, e quindi non hanno lo stesso merito. Occorre trovare il modo di riconoscere, e prima ancora promuovere, il merito degli uni e degli altri. L’evocazione del merito e delle capacità non funziona quando lo si evoca come strumento a garanzia della democrazia e di contrasto al nepotismo, se non si tiene conto che le disuguaglianze sociali incidono sia sullo sviluppo delle capacità sia sulla possibilità di far riconoscere la propria meritevolezza a parità di capacità. Tanto meno funzionano se li si pongono come guide oggettive ed auto-evidenti nelle pratiche scolastiche, non come obiettivi da far maturare. Con la conseguenza di escludere, come ahimè avviene spesso, non già e non solo gli stranieri, ma chi non ha le dotazioni di partenza che lo fanno riconoscere “capace e meritevole”.
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