Il commento di Rossella Ghigi comparso su questo sito a noi, promotrici dell’iniziativa "Il Giusto Mezzo", è parso lucido e sensato, assolutamente in linea con le intenzioni dell’iniziativa. Abbiamo sentito però la voglia di replicare al suo invito a chiarire alcuni passaggi.
Ghigi giustamente osserva che i temi delle diseguaglianze e della redistribuzione della ricchezza sono impliciti nell'iniziativa, ma vanno esplicitati come obiettivi chiari, perché sono le leve di quel cambio di paradigma necessario di cui si parla nell’appello. Le diseguaglianze, continua, non sono solo tra uomini e donne, ma tra donne che hanno vissuto e vivono i gap di genere da una posizione economica, culturale, sociale tutto sommato sicura, e in fondo è quella di chi ha elaborato l’appello (anche se tra noi ci sono due mamme cassa-integrate), e donne che invece non solo quella posizione non ce l’hanno ma in un certo qual modo permettono a chi è più avanti di mantenere quella posizione: domestiche, braccianti, migranti. Ghigi riconosce che lo spazio di un appello ha i suoi limiti, ma raccogliamo in pieno l’invito a dirla meglio.
Stato sociale. Io non trovo una parola per dirla meglio. L’appello pone una questione di metodo e di merito, si concentra sui temi dell’occupazione femminile e dei divari di genere, ma sono temi che sottendono molto altro. Dire che le politiche straordinarie del Recovery Fund, come anche quelle ordinarie della prossima legge di bilancio, debbano concentrarsi meglio sulle infrastrutture sociali del Paese (che liberano il lavoro delle donne, ma liberano il Paese tutto) è esattamente questo: non si superano le diseguaglianze se non si aggredisce la profonda frammentarietà dell’ossatura del nostro Stato sociale, perché le assenze maggiori sono nei luoghi deprivati. Scuola, sanità e servizi sociali sono lo Stato per come ce lo consegna la Costituzione. E troppi lo dimenticano. Casualmente scuola, sanità e servizi sociali sono i luoghi delle donne: non solo perché a prevalente occupazione femminile ma perché supportano le loro vite in quanto titolari della cura. Sotto ogni punto di vista. In questi ambiti servono riforme strutturali profonde e mirate, e risorse. Non risorse senza riforme. Non soldi a pioggia.
Il tema della cura non è un tema residuale, un'attività che se non assolve lo Stato qualcuno lo assolve, ossia le donne. No, è esattamente la declinazione dello Stato inteso in senso costituzionale, come ente deputato ad assicurare i diritti primari della persona per abbattere ogni tipo di diseguaglianza alla radice, e non può gravare sulle donne, se non per scelta, perché è compito dello Stato. Ecco cosa riassume il concetto di “liberazione del lavoro delle donne” sintetizzato in quell’appello. Ed è il punto di vista che manca nei luoghi delle elaborazioni e delle decisioni.
Nel nostro gruppo qualcuna approfondisce di più dal lato economico perché lo ha affrontato in studi sugli effetti della pandemia sul mercato del lavoro (Azzurra Rinaldi e il suo studio, citato da Ghigi), qualcun’altra dal lato della tematica di genere, altre sui temi dell’educazione e dell’istruzione, ma tutte abbiamo chiaro di che cosa parliamo quando chiediamo infrastrutture sociali e non bonus: parliamo di diritti, di uguaglianza, di pari opportunità e di Stato.
Per assicurare non solo la crescita del Paese in base a politiche più mirate, ma per attuare la pre-distribuzione della ricchezza è necessario che i diritti della persona siano assicurati da un Welfare efficiente e presente sull’accesso all’educazione, alla sanità, ai servizi sociali e non da una post-redistribuzione monetizzata in forma di bonus. Gli investimenti pre-distributivi nel Welfare alla lunga costano meno, perché prevengono molti mali e agiscono in molti ambiti, e sono più efficaci di quelli post-redistributivi, perché agiscono in cornici sistemiche e, soprattutto, mirano a raggiungere come offerta tutti e tutte. Attuare questi principi significa pretendere la “metà di tutto alle donne”? La formula è affascinante, la mezza mela, ma nella sostanza significa molto di più in termini politici ed economici.
Non so se ce l’hanno chiaro gli interlocutori, vorremmo che le argomentazioni sulla richiesta di attenzione sui divari di genere, posti in questo modo, non andassero a finire nella categoria “metteremo una donna nella task force sulle donne”, ma che si capisse che una nuova visione della crescita del Paese passa dalla sicurezza sui diritti della persona, assicurati, per carità, nelle modalità che si ritengono più adeguate, con il concorso del terzo settore, del privato, di quel che vogliamo, ma che abbiamo la natura di un sistema integrato, sistemico e strutturale che arrivi a tutte e a tutti. Perché lo Stato quello è; senza, non c’è Stato. Non è secondario ricordare (e Rinaldi lo ripete nel suo studio) che gli investimenti nelle infrastrutture sociali rendono economicamente più di quelli nelle costruzioni.
Tutto questo si traduce a monte con un forte messaggio politico (che coincide con le stesse richieste dell’Ue sul piano attuativo, e che rintracciamo nelle riflessioni della recente, politicissima enciclica di papa Francesco), ma a valle è vita delle persone, in un momento in cui è la vita delle persone a essere stata stravolta e su cui si pone l’urgenza di ricostruire fiducia e sicurezza.
Una delle prime conversazioni pubbliche sul Giusto Mezzo è stata in una radio locale di Palermo con Mariangela Di Gangi, operatrice sociale che opera allo Zen. La quale ha affondato il coltello nella piaga cui accenna Ghigi, la diseguaglianza, la redistribuzione della ricchezza, e ha ripreso, raccontando vite, i dati drammatici del Sud: 7 donne su 10 in Sicilia non lavorano, 90 bambini su 100 non hanno il nido. Nemmeno le badanti possono andare a fare le mamme dello Zen, quartiere dove nemmeno il padre lavora, perché non hanno dove lasciare i figli. Al padre? Nell’assenza dello Stato. In quel luogo lo Stato non può mancare. Eppure non c’è. È una questione di genere o di diritti costituzionali? Di questo parliamo. Lavoro femminile, disoccupazione femminile, infanzia deprivata: finiamo dritto dritto al Sud. La decontribuzione fiscale del 30% sulle assunzioni, approvata recentemente, può risolvere il tema della enorme disoccupazione femminile al Sud, o nel resto d’Italia, se non si affrontano i temi della presenza dei servizi e di una formazione efficace da zero all’età adulta? No, anzi, rischia di allargare la forbice della discriminazione se non si mettono in campo le adeguate valutazioni d’impatto.
Mi concentro sulla prima proposta. Il nido. Il nido nasce come servizio alla famiglia e alle donne. Quella è una delle ricadute. La legislazione italiana però nel 2017 è andata avanti con un passo molto importante di cui pochi hanno conoscenza e consapevolezza: il nido oggi rientra nel diritto all’istruzione del bambino/a, di fatto passa dalle competenze amministrative dei ministeri della famiglia a quelle del ministero all’istruzione. Perché? Perché è un diritto del bambino/a come persona, dunque offerta dello Stato, non più servizio a domanda familiare. Questo è importante perché pone le premesse per dire che l’offerta deve esserci ovunque. Soprattutto nei luoghi deprivati, favorisce lo sviluppo neurologico e linguistico del bambino: è uno dei mezzi più potenti per prevenire le diseguaglianze. Eppure non accade, non è così.
Ho detto poco? Ho detto tutto. Se la vogliamo far dire alla voce di un economista che su questi studi ha vinto un Nobel, Heckmann, gli interventi sul capitale umano sono quelli a ritorno maggiore. Tra tutti gli investimenti che uno Stato può fare quelli a ritorno maggiore sono quelli sul capitale umano. Ma Heckmann ci dice di più: sono tanto più proficui quanto più precoci, su tutti il nido e il tempo pieno, nel senso di tempo lungo educativo necessario a sostenere gli apprendimenti di chi è più indietro. La ricaduta è che liberano le donne, abilitano il lavoro femminile. Pacche sulle spalle qua e là e intanto i nidi non si fanno, le risorse assegnate sono pochissime, i criteri di riparto per spesa storica e non per fabbisogno penalizzano chi i nidi non li ha, il tempo pieno nemmeno a parlarne.
Non solo: quando i soldi arrivano non si spendono. È il caso del Comune di Palermo appunto, dove 9 milioni l’anno di spesa per l’infanzia rimangono immobilizzati. Sentiamo dire: dobbiamo mettere risorse sulla messa in sicurezza dei territori contro il dissesto idrogeologico: ma se fino ad oggi s’è speso manco il 20% di quanto stanziato in quell’ambito, mettiamo soldi su soldi che non sappiamo spendere? E allora c’è anche un tema di capacità e di accelerazione della spesa e di urgenza di qualificazione della pubblica amministrazione, come anche di azione suppletiva dello Stato in questi settori in caso di regioni inadempienti (come è scritto nella Costituzione) che andrebbe preso in considerazione, oltre che di priorità, posto che la sicurezza del Paese in questo momento dipende più dalla presenza di azioni forti sulle infrastrutture sociali su infanzia, scuola, sanità, servizi sociali in ogni angolo che da altro. Senza non si sanano le diseguaglianze ma non c’è nemmeno impresa. Lo chiedono le donne, è vero, ma si riflette su tutti. Nel dibattito e nelle proposte pervenute al governo sul Recovery Fund, o meglio su Next Generation UE, questo approccio integrato, trasversale, interstiziale, sistemico non c’è. Si va dicendo da più parti che quello che manca è una visione di Paese: noi stiamo tentando di tracciarla.
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