Subito dopo le elezioni politiche del 25 settembre, diversi media italiani si sono cullati per giorni nell’illusione che la coalizione di governo fosse fragile e divisa. Si diceva che Matteo Salvini e soprattutto Silvio Berlusconi, umiliati elettoralmente da Fratelli d’Italia, avrebbero pugnalato alle spalle Giorgia Meloni, che peraltro non avrebbe saputo affrontare i nodi che al governo si sarebbe trovata ad affrontare. Nulla di più illusorio. A cinque mesi dalle elezioni politiche, Meloni è ben salda a Palazzo Chigi. Alle regionali in Lombardia e Lazio la coalizione di estrema destra ha stravinto e la situazione economica è meno drammatica di quanto certe previsioni non lasciassero presagire in autunno.
Accanto a questa interpretazione ce n’è stata un’altra, tipica della stampa più vicina al governo, che, al contrario, si è consolidata. Secondo tale lettura, la leader di FdI sta dimostrando di essere un politico responsabile e l’Italia non si è trasformata nell’Ungheria di Orbán. Gli allarmi antifascisti si sarebbero rivelati ancora una volta infondati e nel Paese le cose andrebbero avanti più o meno allo stesso modo. A rafforzare questa tesi si citano spesso l’appoggio del governo italiano a Kiev, i rapporti con Bruxelles, i conti pubblici che restano in linea con quelli del governo di Mario Draghi. Tanto rumore per nulla, dunque? Come spesso accade, le cose sono un po’ più complesse.
Meloni resterà a Palazzo Chigi per un bel po’ anche grazie al suo sapersi destreggiare tra le vicende internazionali ed europee, consapevole che il futuro del suo governo dipende in larga parte da Washington e Bruxelles
Da un lato è già evidente che Meloni resterà a Palazzo Chigi per un bel po’ anche grazie al suo sapersi destreggiare tra le vicende internazionali ed europee, consapevole che il futuro del suo governo dipende in larga parte da Washington e Bruxelles. Non è un caso che da subito abbia rassicurato l’amministrazione Biden sul sostegno a Kiev, recandosi nella capitale ucraina il 21 febbraio per incontrare Zelenski, dopo essersi riunita con Morawiecki il giorno prima a Varsavia. E che si sia sforzata di mantenere un filo diretto con la Commissione europea, senza creare rotture controproducenti. Lo aveva lasciato intendere da subito con la nomina a ministro degli Esteri del berlusconiano Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo, e di un altro ex peso massimo della Forza Italia dei tempi andati, Raffaele Fitto, a ministro degli Affari europei e responsabile della gestione del Next Generation Eu, di cui l’Italia come noto è di gran lunga il principale beneficiario.
Non deve dunque stupire che il primo viaggio della presidente del governo sia stato a Bruxelles, dove ha incontrato Ursula von der Leyen. Meloni, almeno per ora, ha tutto da guadagnare nel mantenere toni urbani e buone maniere, senza aprire fronti pericolosi rispetto alle principali questioni europee. Tuttavia, ciò non significa certo che non possa, quando lo ritiene utile, premere sull’acceleratore con misure identitarie per mantenere mobilitato il proprio elettorato. In questo senso si possono leggere sia la guerra aperta al Reddito di Cittadinanza, in queste ore in via di ridefinizione con un massiccio intervento di tagli e rimodulazioni al ribasso, sia il decreto che criminalizza le Ong, costrette a sbarcare i migranti soccorsi in porti a centinaia di miglia di distanza, limitandone così il più possibile l’opera. Guardano all’elettorato di destra, evidentemente, anche la prima uscita del governo, il decreto d’urgenza contro i “rave”, o l’insistenza sulle guerre di tipo culturale, che ripescano il vecchio refrain di un’egemonia culturale di sinistra che impedirebbe una meritata egemonia culturale di destra.
Sanremo, per citare l’esempio più lampante, è stato considerato uno spettacolo “comunista”: non certo perché qualche artista in gara ha cantato a squarciagola l’Internazionale, quanto piuttosto per la presenza di Roberto Benigni, reo di avere elogiato la Costituzione davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presente per la prima volta al Teatro Ariston. Ridicolo? Fate voi. D’altronde la decantata moderazione su questioni cruciali non implica che una classe dirigente in larga parte composta da dilettanti allo sbaraglio non faccia errori marchiani. Si pensi alla crisi apertasi con la Francia in autunno, al caso Donzelli-Delmastro, alle recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Piantedosi dopo la tragedia di migranti a Cutro o a quelle del ministro dell’Istruzione Valditara sulla violenza squadrista di Firenze.
Dal canto loro, Salvini e Berlusconi non hanno molto margine di manovra, salvo alzare la voce quando ne hanno l’occasione. A meno di imprevisti, non ci saranno grandi cambiamenti. Ognuno recita una parte, come a teatro. Di tanto in tanto Berlusconi loderà il vecchio amico Putin, mentre Salvini, al di là di girare per tutta la penisola inaugurando cantieri, ripeterà i suoi slogan sulla temuta invasione di migranti. Meloni si lamenterà salvo poi, alla fine, far buon viso a cattivo gioco. Va poi considerato che sono mesi in cui occorrerà nominare alti funzionari della Pubblica amministrazione: perché mai perdere l’occasione di nominare una persona di fiducia ai vertici di Enel, Leonardo, Eni o della televisione pubblica?
C’è un altro elemento che può spiegare perché "re Giorgia", come l’ha definita la giornalista Susanna Turco, può dormire sonni piuttosto tranquilli. Sinora, l’opposizione è stata praticamente inesistente. La vittoria di Elly Schlein dà speranza, non c’è dubbio, così come rivedere in piazza a Firenze decine di migliaia di persone. Ma non si può perdere di vista che il Pd sta vivendo la peggiore crisi della sua storia, ed è tutto da vedere che la nuova segreteria di Schlein, portata a casa con il voto nei gazebo ma non nei circoli, possa spezzare il momento nero invertendo nettamente il trend dei sondaggi. Schlein dovrà provare a rinnovare un partito in profonda crisi di identità, che ha sin qui pagato da un lato un decennio al governo con alleanze spurie, che lo hanno visto al fianco di ex berlusconiani ma anche del Movimento 5 Stelle; dall’altro una linea politica ondivaga, incerta tra i richiami del moderatismo che non sa rinunciare al modello che vorrebbe attirare un elettorato di centro e una visione più socialdemocratica, protesa verso la difesa dei più deboli e una tutela allargata dei diritti, vecchi e nuovi.
Dal canto loro i grillini alle ultime regionali hanno mostrato ancora una volta la loro debolezza nei territori. La scommessa di Giuseppe Conte – rappresentare la vera opposizione di sinistra – appare, per di più dopo la vittoria di Schlein, discutibile, oltre che poco credibile per chi è stato presidente del governo insieme a Salvini. D’altra parte, il Terzo Polo ha sin qui mostrato di avere poche possibilità di diventare il partito macroniano italiano. È entrato in Parlamento, ma non riesce ad attrarre quel che resta di Forza Italia per spezzare la maggioranza di governo – alla quale, anzi, spesso presta assistenza – e il flop alle regionali è stato memorabile. È poi tutto da vedere se sarà capace di catturare gli esuli annunciati dal Partito democratico, i cosiddetti “riformisti” spaventati dall’annunciato slittamento a sinistra del Pd che verrà, anche questo tutto da sottoporre a verifica. L’esperienza di governo di Schlein in Emilia-Romagna proprio a fianco dello sfidante Bonaccini, infatti, sembra aver deluso molti dei suoi sostenitori della prima ora, non essendosi saputa distinguere su temi cruciali, come ad esempio l’ambiente.
L’unica opzione per complicare la vita a Meloni – che come noto può contare su un’ampia maggioranza parlamentare – potrebbe venire solo da opposizioni che sappiano e vogliano lavorare insieme, sottolineando i tanti errori commessi dall’esecutivo e, soprattutto, mostrandosi in grado di proporre un progetto credibile per il Paese. Una possibilità, questa, che oggi sembra in verità assai remota, anche alla luce dei programmi sostenuti dal Terzo Polo e dal Movimento 5 Stelle. Il Pd si è sin qui trovato tra l’incudine e il martello, senza avere ben chiaro cosa fare da grande.
Se questo è lo stato delle cose, quali rischi corre il governo Meloni in questo momento? Il primo è sul fronte internazionale. È vero che la leader di FdI ha fin qui curato i rapporti con Washington e Bruxelles, ma la situazione è estremamente complessa e il rischio di finire isolata è dietro l’angolo. I rapporti con Parigi e Berlino sono assai flebili, la tensione con Macron è palpabile, l’asse franco-tedesco si è rafforzato negli ultimi mesi. Non solo Meloni non è stata invitata alla cena con Zelenski organizzata da Macron e Schölz, ma il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti non è stato nemmeno informato che i suoi omologhi francese e tedesco si sarebbero recati a Washington per discutere con l’amministrazione Biden. La recente visita a Roma del ministro dell’Economia francese Le Maire sembra più che altro un contentino, giusto per salvare la faccia di Giorgetti. Come non era difficile prevedere, il confronto con i mesi del governo Draghi, perno del triangolo con Parigi e Berlino, è implacabile.
Le battute d’arresto nei rapporti con Francia, Germania e Stati Uniti hanno costretto Meloni a rispolverare la vecchia retorica sovranista, che in verità farebbe meglio ad evitare viste le controindicazioni diplomatiche che porta con sé. Al Consiglio europeo di inizio febbraio la linea del governo italiano è stata sconfitta su temi cruciali come gli aiuti di Stato, la riforma del Patto di stabilità e, al di là della retorica del governo, la redistribuzione dei migranti. Un tema di nuovo esploso con l’ennesima tragedia della migrazione, questa volta sulle coste della Calabria, dove il governo per bocca di alcuni suoi rappresentanti, a cominciare dal ministro dell’Interno, non ha certo dato gran prova di sé, sforzandosi di continuare a tenere la linea “dura” ma arrivando in questo modo a disconoscere anche la più elementare forma di pietas, non trovando altro da dire se non che chi parte da condizioni di vita disperate, quasi sempre da zone di guerra ed estrema povertà, dovrebbe evitare di farlo. Oltre a sostenere, contraddicendo gli stessi dati del Viminale, che le misure per contenere l’immigrazione funzionano.
Tutto ciò detto, va notato che alcuni dei movimenti che il governo sta compiendo in ambito internazionale potrebbero dare fastidio a Bruxelles. Non si tratta tanto dell’iperattivismo in Nord Africa con i viaggi in Algeria, Libia ed Egitto per questioni legate ai flussi migratori e all’approvvigionamento energetico. E neppure degli accordi siglati con il presidente indiano Modi. Meloni infatti sta lavorando per stringere un’alleanza tra i Conservatori e Riformisti europei, partito che presiede, e i Popolari in vista delle prossime elezioni nell’Ue della primavera del 2024. L’obiettivo è un cambiamento delle alleanze nel Parlamento europeo spostando a destra il Partito popolare europeo, affinché abbandoni le grandi coalizioni con socialdemocratici e liberali. Non è questione di poco conto. Al contrario. Per ora Meloni sembra essere riuscita a convincere Manfred Weber, presidente del Ppe. Tuttavia, ci sono leader della Cdu tedesca contrari a una simile prospettiva, così come gli stessi Macron e Schölz. Alla fine, operazioni sotterranee di questo tipo potrebbero ritorcersi contro di lei, con conseguenze anche sulla stabilità del governo.
Un secondo, possibile problema per Meloni ha a che fare con il dilettantismo della sua classe dirigente. Prima delle elezioni, la leader di Fratelli d’Italia ha condotto una campagna acquisti tra ex berlusconiani e battitori liberi. Alcuni hanno profili discutibili, ma portano con sé un know how dell’amministrazione e delle istituzioni, oltre a numeri di cellulare che potrebbero rivelarsi assai preziosi. Il problema della classe dirigente che circonda Giorgia Meloni però rimane. FdI è un partito che fino a quattro anni fa non superava il 5% dei consensi: e una classe dirigente non si mette insieme in pochi mesi. Non è dunque un caso se il capo del governo ha scelto di nominare persone di comprovata fiducia in posti chiave, per poter contare su una cerchia ristretta di "sicurezza". È lecito domandarsi, in ogni caso, se la scelta di rinchiudersi nel bunker dei fedelissimi sia una soluzione efficace a lungo termine.
Non è un caso se il capo del governo ha scelto di nominare persone di comprovata fiducia in posti chiave. Ma è lecito domandarsi se la scelta di rinchiudersi nel bunker dei fedelissimi sia una soluzione efficace a lungo termine
Il terzo problema che la leader di FdI potrebbe presto trovarsi a dover affrontare sono gli alleati di governo. Al momento, come detto, né Salvini né Berlusconi sono nelle condizioni di sparigliare le carte. Il progetto di Meloni è però quello di creare un grande partito conservatore italiano, sul modello americano e britannico, ma con un occhio a quelli polacco e ungherese. Un sogno che Berlusconi già aveva negli anni Novanta, ma che al momento appare assai delicato e con lunghi tempi di realizzazione, nel caso. Non ci sono dubbi che, data la correlazione di forze a livello elettorale, molti salirebbero sul carro della vincitrice, per convinzione o convenienza. Ma è altrettanto indubbio che l’operazione non sarebbe indolore e incontrerebbe parecchie resistenze che potrebbero mettere a rischio i fragili equilibri esistenti, con ricadute sul governo.
Il quarto e ultimo punto critico riguarda il progetto di Paese che la premier ha in mente. È vero che, stando ai sondaggi, il governo continuerebbe a poter contare su un sostegno di quasi il 50% dell’elettorato e che FdI supererebbe il 30% dei consensi; ma tutto può cambiare più in fretta di quanto si pensi. Così come gli italiani hanno portato al potere leader come Renzi, Grillo e Salvini salvo poi stancarsene presto, non è irragionevole immaginare che lo stesso possano fare con Meloni. Gli attuali livelli di astensione sono i più alti mai toccati nella storia repubblicana, un dato questo che, con un elettorato particolarmente volatile e in un momento di crisi che purtroppo non si preannuncia come transitoria, potrebbe cambiare rapidamente le carte in tavola.
Se Meloni proseguirà sulla strada che sembra voler seguire – a cominciare dalle riforme istituzionali che porterebbero a un sistema presidenziale alla francese o quella che dovrebbe condurre in porto l’autonomia regionale differenziata, tanto desiderata dalla Lega e già approvata dal Consiglio dei ministri – ciò potrebbe portare a una mobilitazione della parte più sensibile della cittadinanza. Il referendum sulla riforma costituzionale voluto da Matteo Renzi che segnò l’inizio del suo declino sta lì a monito.
Se è vero dunque che i giorni del governo Meloni non sono affatto contati, è vero anche che, al contrario di quanto sostengono alcuni, un governo come quello italiano non è un esecutivo qualsiasi, solo un po’ più conservatore dei precedenti, ma potrebbe rivelarsi una minaccia per la democrazia italiana, almeno così come l’abbiamo sin qui conosciuta. Starà all’opposizione, a cominciare da un Partito democratico che dovrà trovare rapidamente un proprio equilibrio e una propria linea politica, lavorare per fare da argine. E ridare voce e fiato a una società che sembra caduta nella sfiducia e nell’apatia.
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