Bisogna andare indietro al 1954 per trovare un precedente simile: la morte di un giudice della Corte suprema statunitense nel pieno del suo mandato. A 79 anni, il 13 febbraio il giudice Antonin Scalia è inaspettatamente passato a miglior vita. Un evento privato, di per sé doloroso, si sta trasformando nell’ennesimo episodio della guerra senza esclusioni di colpi fra il Congresso repubblicano e la presidenza di Obama. La Costituzione federale è chiara: spetta al presidente nominare i giudici della Corte suprema quando si verifica una vacanza del posto (per dimissioni o per morte, visto che sono nominati a vita). E spetta al Senato ratificare la nomina. Una prassi seguita in passato senza troppi drammi, pur con episodi che hanno reso evidente come la scelta del presidente sia tutt’altro che una pratica amministrativa.
La nomina dei giudici federali, e di quelli della Corte suprema in particolare, rappresenta uno dei poteri più significativi del presidente per consolidare e garantire l’impianto valoriale e riformatore della sua agenda politica, anche oltre i confini del mandato. Appare evidente, quindi, la sua portata politica, al di là della responsabilità del presidente di nominare giudici di alto profilo morale e adeguata competenza giuridica. Il conflitto, specie in momenti di alta tensione ideologica, non può che esplodere laddove la posta in gioco (scelte economiche, diritti, libertà, sicurezza) appare alta.Uno dei maggiori momenti di tensione si ebbe nel 1937, quando Franklin D. Roosevelt, indignato per le sentenze della Corte che rischiavano di smantellare l’impianto newdealista, cercò di forzare la mano proponendo una legge – legittima, perché il numero dei componenti non è stabilito dalla Costituzione – che, aumentando il numero dei giudici, gli avrebbe dato la possibilità di cambiare l’orientamento della Corte stessa. Progetto che fallì perché inevitabilmente si stava creando un vulnus nella separazione dei poteri, anche se convinse i membri dell’alta Corte alle dimissioni o a convincersi che, come avrebbe cantato Bob Dylan quasi trent’anni dopo, «the times they are a changin».
Lo stesso Scalia, in realtà, ha rappresentato l’espressione di quella «rivoluzione reaganiana» che ha contribuito alla messa in discussione dell’agenda liberal e allo spostamento in senso conservatore della Corte. Fautore del cosiddetto «originalism», Scalia riteneva che la Costituzione dovesse essere interpretata in modo testuale, secondo quello che era «l’intento originale» dei padri fondatori. Egli rifiutava, così, l’idea di una «living Constitution», vale a dire la necessità di calare le norme dentro i processi di mutamento economici e sociali. I suoi critici più accesi lo hanno definito un giudice che vagheggiava i tempi di Via col vento; altri un magistrato responsabile dell’inasprimento delle norme che hanno favorito una vera e propria incarcerazione di massa e la messa in discussione di quei meccanismi antidiscriminatori soprattutto in relazione all’esercizio del diritto di voto da parte degli afro-americani; altri ancora colui che ha cercato, senza riuscirci, di abolire la riforma sanitaria di Obama.
Immigrazione, diritto al possesso delle armi, diritti sindacali, aborto, matrimoni same-sex, riforma sanitaria, norme ambientali: sono solo alcune delle questioni su cui la Corte sarà chiamata ad esprimersi nei prossimi mesi. Si comprende bene perché la nomina del nuovo giudice, in un contesto in cui anche la Corte suprema appare fortemente polarizzata (quattro giudici liberal e quattro conservatori), diventa una questione incendiaria nello scontro politico tra Obama e il Senato repubblicano. Per il presidente si presenta l’occasione di rafforzare la componente liberal della Corte – e quindi salvaguardare l’Obamacare, e non solo – avendo in mente che tre giudici avranno ottant’anni e oltre al momento dell’inaugurazione della nuova presidenza. Per non parlare dell’occasione storica di riplasmare la composizione stessa della Corte, che potrebbe per la prima volta nella sua storia vedere in minoranza i giudici maschi bianchi.
Per i repubblicani, si tratta di scongiurare una nomina che potrebbe contribuire alla marginalizzazione di principi e valori cari al movimento conservatore. Da qui l’inusitata dichiarazione del leader repubblicano del Senato, secondo la quale qualsiasi proposta proveniente da Obama verrà respinta al mittente perché, utilizzando la più vieta retorica populista, a suo dire «il popolo americano deve far sentire la sua voce nella selezione del prossimo giudice federale» e quindi la scelta dovrà spettare al nuovo presidente eletto. Con buona pace del principio di «intento originale» di Scalia, che su tale affermazione avrebbe avuto senz’altro da ridire.
Siamo nel pieno della campagna elettorale, il partito repubblicano – che ha maggiori possibilità di vincere le elezioni congressuali che non le elezioni generali – cerca in questo modo di mobilitare la sua base, sventolando il drappo rosso della deriva liberal della Corte. Si tratterà di vedere fino a che punto questa battaglia potrà essere combattuta senza che si tramuti in un boomerang, mostrando ancora di più quella tendenza ostruzionistica che finirebbe per mobilitare una base democratica. Nonostante la «novità» Sanders, quest’ultima appare poco motivata, ma pronta a rivitalizzarsi per difendere alcune conquiste come quelle legate ai diritti civili e riproduttivi, alle politiche antidiscriminatorie o alle tutele ambientali. A novembre si eleggerà anche un terzo dell’alta Camera, e se i repubblicani vogliono mantenere il controllo del Senato devono trionfare in quegli Stati dove nel 2008 e nel 2012 Obama aveva vinto.
Ancora più importanti, però, sono gli aspetti impliciti nel riflesso condizionato che sembra dominare la maggioranza repubblicana in Senato e che porta a respingere le proposte provenienti dalla presidenza; di fatto negando a Obama di esercitare pienamente le sue funzioni nel suo ultimo anno di mandato. Il presidente non è riuscito a nominare neppure un giudice delle Corti di appello dal 2015, cioè da quando i repubblicani hanno ripreso il controllo del Senato; e vi è di fatto una cessazione del lavoro delle Commissioni, compresa quella del bilancio che, a dispetto di ogni prassi procedurale precedente, sembra non intenzionata a mettere in discussione la proposta di budget pervenuta dall’esecutivo.
Insomma, un’ulteriore prova della crisi di funzionalità del sistema, di una polarizzazione che mette a repentaglio il delicato meccanismo costituzionale statunitense. Sono interessanti alcuni commenti di chi vede tutto ciò con preoccupazione: nessuno lo ritiene possibile, però quasi si rimpiange il parlamentarismo europeo.
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