Breve antefatto: ascolto la radio in modo saltuario, dato che lo faccio quasi esclusivamente in automobile e se sono alla guida da solo. Nel pomeriggio del 2 settembre sono capitato casualmente su Rai Radio1 mentre il conduttore intervistava Piergiorgio Corbetta circa le ragioni del successo di Matteo Renzi e circa le ragioni che lo davano probabile vincitore di una non lontana competizione elettorale. Esaurito il “tema Renzi”, il giornalista virò sulle possibilità di successo della primogenita di Silvio Berlusconi come candidata alla guida del Pdl (o meglio di Forza Italia 2.0) e quindi della coalizione di destra.
Il professor Corbetta, con chiarezza e con garbo, cominciò col definire la candidatura di Marina Berlusconi più un prodotto giornalistico, che il risultato di un progetto politico; aggiunse poi che, anche a non considerare l’indisponibilità della presunta candidata, era difficile esprimere valutazioni sul suo peso politico dato che non si avevano conoscenze circa le sue attitudini politiche e neppure circa una sua qualche attività o iniziativa politica. Mi sembrò un modo elegante per far capire che non si può chiedere a uno studioso di costruire una seria analisi a partire da gossip e soprattutto da ballon d’essai.
Personalmente fin da quando se n’era cominciato a parlare, nel mese di agosto, mi sembrava impossibile che un leader politico potesse progettare la trasmissione della propria leadership a un figlio. Ancor più incredibile mi appariva il fatto che sui mezzi di informazione se ne continuasse a discutere con serena naturalezza. Sicché sentire un conduttore radiofonico che cercava ancora di valutare il successo di una candidatura neo-monarchica mi mise veramente a disagio. Non riuscivo a capire; non mi pareva possibile capire. Mi vedevo condannato ad invecchiare male prendendomela con la nequizia dei tempi e con le nuove generazioni. In pratica col mondo intero.
Poiché ogni tanto mi impegno a ragionare, mi è finalmente sembrato di capire da dove nascesse la mia stizza. In fondo il dibattito sulla candidatura di Marina Berlusconi aveva girato intorno alla sua capacità di gestire l’eredità paterna, sia nella sua dimensione patrimoniale, sia nella sua dimensione politica. Non c’erano veri motivi di novità; solo riflessioni e magari dubbi sull’idoneità della candidata. Nessuno, per quanto so, che facesse riferimento alla questione centrale: al fatto cioè che sia il patrimonio aziendale che il patrimonio politico, distinguibili nel mondo delle idee, sono tenuti insieme dal conflitto di interessi.
Qualche rapido chiarimento è necessario: Mediaset è un’impresa lato sensu editoriale che produce e vende cultura popolare: modelli di consumo, stili di vita, sogni collettivi (spettacoli e sport), universi mentali, senso comune (cosa diversissima dal buon senso) e anche informazione vera e propria. Un’impresa di tal genere riesce a vivere se ha una apprezzabile influenza sulla pubblica opinione. Quanto più è influente tanto più raccoglie risorse nel moderno mercato della pubblicità.
Sia consentito un inciso da vecchio collaboratore del Mulino. Nei miei “anni bolognesi” ebbi occasione di sentire dalla viva voce di Giovanni Spadolini, nella sua veste di direttore del “Resto del Carlino” che un giornale era “un’impresa che si reggeva sulla raccolta di pubblicità”. Ero un pivello così ingenuo (doveva essere il ‘60, o forse il ‘61) che rimasi sconcertato. Come se mi avessero svelato che i miei studi erano stati pagati da qualche attività disonesta dei miei genitori.
C’è solo da aggiungere che quanto più l’impresa di cui parliamo è influente tanto più è in grado di ottenere vantaggi di vario genere. Nella fattispecie basterà ricordare che Mediaset poté passare alle trasmissioni nazionali grazie a un intervento politico; che l’intervento spinse quattro ministri democristiani a dimettersi dal governo di cui facevano parte e che il presidente del Consiglio li sostituì in meno di ventiquattr’ore. Un episodio che sfata due luoghi comuni: che tutti i democristiani erano incollati alla poltrona e che nessuno di loro sapeva prendere decisioni tempestive.
Si aggiunga ancora che quanto più l’impresa è in grado di influenzare l’opinione pubblica, tanto più, qualora lo si voglia, essa può costruire un patrimonio politico per l’imprenditore che ne sia il dominus. Quando il patrimonio politico dell’imprenditore è così corposo che gli consente di conseguire uno status politico e addirittura di trovarsi a decidere su situazioni o su regole che interessano la propria impresa, il conflitto di interessi è servito.
Adesso la politica italiana consulta tutti gli àuguri disponibili per capire se a Berlusconi conviene inghiottire qualche grosso rospo e continuare ad intestarsi il patrimonio senza metterlo in crisi con i problemi di ogni successione, o se gli conviene tentare la sorte ad una roulette dove i numeri (cioè le variabili) non sono controllabili.
Post scriptum: Il conflitto di interessi non è stato inventato da Berlusconi. Il primo, più consolidato e meno realmente discusso e di fatto ignorato conflitto di interessi, il vero modello che Berlusconi ha capito e migliorato, è stato quello messo a punto sul corpo della Rai. Un’impresa in cui le regole erano quelle del diritto civile e in cui i poteri più penetranti sono stati esercitati dalla forze politiche, inizialmente quelle di governo e, in seguito, secondo il modello consociativo, anche le altre.
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