È urgente imboccare la strada di un futuro più giusto, prendendo di petto il problema dei problemi: le gravi disuguaglianze e il senso di ingiustizia e impotenza che mortificano il Paese.

Ancora una volta, e più ancora che in condizioni ordinarie, il futuro non è segnato. Dipenderà dalle nostre scelte. È possibile, dunque, cambiare rotta. Ma non è facile, per il coacervo di conoscenze che le scelte giuste richiedono, e perché il cambio di rotta ha molti avversari: lo stato delle cose in cui il virus è esploso era sì ingiusto per moltissimi, ma era conveniente per molti altri, che resisteranno al cambiamento. Ecco perché è necessario che ogni proposta nasca attraverso un confronto acceso, informato e aperto e sia sostenuta da una mobilitazione sociale robusta. […] Ma per preoccuparci di disuguaglianze e di ambiente – si argomenta – non dobbiamo «prima» crescere? È un’obiezione che prima della crisi veniva presentata richiamando la gravità dell’arresto ventennale della produttività in Italia. E che verrà riproposta ora, di fronte alla perdita di Pil e di capacità produttiva causate dalla crisi Covid-19. La nostra risposta è che le cose stanno esattamente al contrario. Prima di tutto, perché anche dove, nell’Occidente, si è cresciuti, dove la produttività non è stagnante, le disuguaglianze sono alte e sono in genere aumentate, talora anche più che da noi. Mentre la considerazione di «sociale» (o inclusivo) e «ambientale» (o sostenibile) come attributi o vincoli della crescita – si pensi all’inconcludente slogan europeo della «crescita inclusiva e sostenibile» – ha determinato una sostanziale disattenzione all’obiettivo sociale e una considerazione assolutamente inadeguata dell’obiettivo ambientale. Ma c’è di più. Il recupero di competitività dell’Italia passa attraverso interventi che servono alla giustizia sociale e ambientale. È nel perseguimento di questi obiettivi che l’Italia può ritrovare, ancor più oggi dopo la crisi Covid-19, gli animal spirits imprenditoriali, la connessione fra privato, sociale e pubblico, la domanda interna di servizi e beni, la disponibilità di risorse naturali e culturali, per tornare a svilupparsi. Il ritorno dell’Italia allo sviluppo passa per il venir meno della possibilità di pagare salari non dignitosi o lavoro irregolare, che servono solo a prolungare l’agonia di imprese che dovrebbero, piuttosto, innovare. Passa per la creazione di buoni lavori a cui può concorrere solo la rimozione di ostacoli alle opportunità delle persone e un’estensione della responsabilità delle imprese: dai loro azionisti e finanziatori al lavoro e alla comunità in cui esse operano. Passa per un’accelerazione decisa dello spostamento verso «produzioni verdi», sfruttando il vantaggio comparato che abbiamo in termini di potenzialità e complessità produttive già esistenti. Passa per l’assegnazione di missioni strategiche alle nostre imprese pubbliche, affinché esse guidino una transizione produttiva compatibile con l’ecosistema e contrassegnata da giustizia sociale, e liberino il proprio forte potenziale di innovazione digitale inespresso. Passa per una drastica riduzione della povertà educativa. Passa per l’impegno rafforzato di tutti i centri di competenza pubblici, a cominciare dalle università, a trasferire la conoscenza, non a privatizzarla. Passa per il ricorso ad appalti pubblici innovativi che siano da traino per la transizione energetica, per un lavoro più dignitoso e autonomo nelle imprese, per un ruolo del privato sociale che metta a disposizione conoscenza e capacità progettuale. Passa per la liberazione del potenziale di energie, competenze e capacità delle donne, che possono diventare volano di sviluppo se liberate dai vincoli e messe in condizione di dare il proprio contributo nei processi decisionali. Passa per un modo di fare politica pubblica attento ai territori e animato da metodi partecipativi, che dia vita a strategie di sviluppo delle aree marginalizzate (aree interne e periferie in testa), centrate sul miglioramento dei servizi fondamentali e sulla rimozione degli ostacoli alla creatività e alla imprenditorialità. Passa per l’uso, a livello locale, da parte dei Comuni, di piattaforme digitali collettive in cui i dati forniti da tutti noi siano utilizzati attraverso dispositivi di intelligenza artificiale, per migliorare la qualità dei servizi fondamentali e del lavoro che li produce e in modi soggetti al pubblico confronto, non per creare posizioni di monopolio delle imprese. Passa per amministrazioni pubbliche rinnovate nelle persone e nei metodi, la cui azione sia indirizzata da missioni mobilitanti e favorisca la ricerca discrezionale delle soluzioni migliori per gli utenti finali. Passa per la creazione di un luogo, impresa per impresa, o distretto produttivo per distretto produttivo, che consenta a tutte le lavoratrici e i lavoratori (stabili e precari) della filiera di far sentire la propria voce e di confrontarla e mescolarla con quella di chi nei territori vive, per pesare poi assieme sulle strategie aziendali. Passa per una redistribuzione generazionale della ricchezza che miri a livellare le opportunità dei giovani di compiere scelte «libere», e che facendolo consenta di liberare anche capacità imprenditoriali altrimenti represse e renda più efficiente quel passaggio generazionale di impresa che in Italia è così corrosivo delle potenzialità del paese. Insomma, si tratta di rovesciare il paradigma di questi anni: quello secondo cui basta puntare alla crescita e, prima o poi, le disuguaglianze si ridurranno. Un paradigma che ha fallito nel produrre giustizia sociale e ambientale, e che da noi, anche per specificità nazionali – ci torneremo – ha fallito anche nel produrre crescita. E allora il nuovo paradigma deve essere, appunto, rovesciato: puntare alla giustizia sociale e ambientale, anche come indirizzi dell’innovazione e dello sviluppo. Una crescita giusta, per capirsi. «Giustizia sociale e ambientale per lo sviluppo» può essere lo slogan. D’altro canto, che senso ha una crescita che non risponde alla giustizia sociale?

 

Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale sarà disponibile a partire dal 28 maggio, anche sul sito del MulinoFabrizio Barca è il coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità. È stato dirigente di ricerca in Banca d’Italia, capo Dipartimento nel ministero Economia e Finanze, presidente del Comitato Ocse per le politiche territoriali, advisor della Commissione Europea, ministro per la Coesione territoriale nel governo Monti. Ha insegnato in università italiane e francesi ed è autore di numerosi saggi e volumi. Patrizia Luongo è economista e lavora come ricercatrice per il Forum Disuguaglianze Diversità. Ha conseguito un master in Economia all’Università di Essex (UK) e un dottorato in Economia all’Università di Bari. Ha lavorato per l’Università di Bari e come consulente per l’Ocse, la Banca Mondiale e lo Human Development Report Office delle Nazioni Unite.

Mercoledì 3 giugno alle 18 e 30 con Fabrizio Barca e Patrizia Luongo prosegue l'iniziativa Dialoghi tra le righe in diretta Facebook sulla pagina dell'editore