Aree vaste dell’Italia sono a rischio di desertificazione umana. L’Istat stima che nel 2070 gli italiani saranno all’incirca 12 milioni in meno di quelli odierni, e che, in assenza di choc esterni, potrebbero decrescere a 40 milioni a fine secolo. Nel prossimo mezzo secolo, svaniranno nel Mezzogiorno più di 2,2 milioni di giovani (-45,1%); il bacino potenziale dei ragazzi in età di immatricolazione universitaria si ridurrà nell’intero Paese del 30% circa (-337 mila), del 43,5% nel Mezzogiorno (-190 mila), per cui, a parità dell’odierno tasso potenziale di immatricolazione, gli atenei italiani rischiano di perdere oltre 91 mila iscritti (-28,8%) e quelle del Sud circa 53 mila (-45,1%), con conseguenze rilevanti per il sistema universitario e per l’intero sistema sociale ed economico nazionale.

Ancora più intensa è la scrematura attesa della popolazione scolastica. Si prevede che nel 2070 i bambini e i ragazzi in età scolare, quelli tra 3 e 18 anni, saranno oltre 2,6 milioni in meno di quelli attuali (-30,5%), metà della perdita nelle sole regioni meridionali. Anche in questo caso le implicazioni sul sistema scolastico saranno fortemente destrutturanti, con riflessi inimmaginabili su insegnanti, personale tecnico-amministrativo, aule, edifici, trasporti, quartieri e paesi interi.

Sarà un Paese decisamente più vecchio. L’età media sarà di 51 anni, cinque in più dell’attuale, nel Mezzogiorno si toccherà il picco di 52 anni, sette in più di oggi; gli italiani ultrasessantacinquenni rappresenteranno oltre un terzo della popolazione a fronte di meno di un quinto odierno. Tra pochi decenni avremo dunque un’Italia più piccola e molto diversa da quella di oggi, segnata da uno squilibrio generazionale verso le coorti anziane, da meno residenti nelle regioni e nei comuni minori, nelle colline e nelle montagne più remote, da diffuse enclave di sotto-popolamento estremo.

Molti paesi «interni», quelli con dotazioni e qualità dei servizi di cittadinanza allo stremo, sono già affondati nella spirale dello spopolamento definitivo. Luoghi sempre meno compatibili con una vita dignitosa; dove un infartuato rischia la morte prima di arrivare in ospedale; dove un bambino entra in classe dopo un lungo e accidentato viaggio in macchina; dove una donna incinta impiega un’ora e più per arrivare allo studio del ginecologo; dove l’autobus per l’università più vicina può impiegare anche due ore; dove la guardia medica in più giorni alla settimana è a diverse decine di chilometri di distanza; dove il bancomat più vicino è a mezz’ora di macchina; dove sempre più spesso il sindaco, il segretario comunale, il medico, il parroco vivono nei centri urbani lontani dai paesi che amministrano, «curano» e dove celebrano messa. Un’Italia grande «fuori» Italia e «fuori» dalla Costituzione dei diritti universali, per tutti.

Tuttavia, seppure all’osso demografico, in questi paesi si continua ad abitare, a fare progetti, a manifestare bisogni, a sognare. A praticare la cosiddetta «restanza». Ci sono famiglie che hanno deciso di rimanere e giovani che hanno scelto di continuare a risiedervi e diversi altri che resterebbero se si creassero le condizioni per restare. E ci sono soprattutto tanti anziani, il più delle volte soli, che restano perché radicati da sempre in quei luoghi e che continuano a mantenere vive relazioni sociali di prossimità, piccole ma essenziali economie circolari, produzione e manutenzione di beni pubblici ecosistemici. Restanti che adottano strategie di adattamento e resilienza per attenuare le fragilità del vivere in condizioni di bassa intensità umana.

I discorsi e le politiche dominanti non vedono i luoghi "vuoti", li derubricano a dissonanza, scarti, residui del passato oppure a borghi-cartoline, amenità per il fine settimana

Da tempo, questo variegato e diffuso mondo delle comunità rarefatte è stato abbandonato al proprio destino. I discorsi e le politiche dominanti, formattati sul totem della densità e dello standard, non vedono i luoghi «vuoti», li derubricano a dissonanza, scarti, residui del passato oppure a borghi-cartoline, amenità per il fine settimana. L’ossessione novecentesca fordista del tot, del conseguimento di lotti produttivi elevati per garantire contenimento dei costi unitari e alimentare mercati di massa, ha permeato il resto: dalle città alle scuole, dagli ospedali agli impianti sportivi, dagli uffici alla distribuzione di merci, si è via via consolidata la corsa verso il grande, il mega, il metropolitano. Un numero minimo di alunni per classe e istituto scolastico, una soglia minima di parti annui per reparto di ostetricia, un certo numero di abitanti per la farmacia, per la caserma dei carabinieri, per l’ufficio postale, lo sportello bancario e così via. Tendenzialmente soglie elevate e fisse, a prescindere dalla densità demografica, dalla geografia e dalla topografia dei contesti.

Un vero capovolgimento di senso: la dimensione prima dei bisogni; il numero prima della vita; l’efficienza prima dell’efficacia; il processo prima dell’essenza. Lo smantellamento sistematico di presidi pubblici e di infrastrutture sociali della quotidianità nelle comunità sotto soglia ha spinto quote crescenti di residenti a spostarsi verso i centri di concentrazione dell’offerta di servizi essenziali, assecondando così la spirale regressiva demografica: meno servizi inducono l’abbandono, ma meno abitanti «giustificano» il taglio dei servizi e così via lungo il piano inclinato della desertificazione e della sottrazione di futuro.

Bisogna allora rassegnarsi alla rarefazione sempre più spinta e dunque all’estinzione definitiva di tantissime comunità locali? Non c’è scampo al darwinismo del Welfare basato sulle dimensioni?

Per le aree non ancora allo spegnimento demografico definitivo, è certamente possibile ripensare l’azione pubblica e tentare, anche in modo sperimentale, nuove forme di riabitare. Si possono immaginare e praticare percorsi e interventi alternativi, riflessivi, lento pede, considerando il possibile più che il probabile. Preliminarmente bisognerebbe dare più «potere» alle comunità locali, attivando spazi e strumenti per la partecipazione e per la rifioritura di capacità latenti, prendendo atto che il mondo non è piatto ma pieno di gobbe e dunque ripensando in modo radicale erogazioni e accessibilità ai servizi fondamentali. Non basta la semplice offerta di servizi standard, per quanto essenziali; non è neppure sufficiente costruire una scuola o una casa della comunità, e non bastano neanche più insegnanti e ore aggiuntive di didattica, anche se vitali. Serve innanzitutto ascolto, negoziazione per co-progettare servizi e prestazioni che siano riconquista civile e di cittadinanza: una «buona» vita presuppone protagonismo e attivazione delle persone luogo per luogo, una loro legittimazione come «soggetti politici» e non esclusivamente come cittadini bisognosi.

Bisognerebbe dare più "potere" alle comunità locali, attivando spazi e strumenti per la partecipazione e per la rifioritura di capacità latenti

Si prenda, a mo’ di esempio, il problema delle pluriclassi. In molti paesi in accelerato rinsecchimento demografico spesso il numero di bambini non è sufficiente per la formazione di una classe ordinaria, sicché si è sovente obbligati a dare vita alle pluriclassi, ovvero ad aule con alunni di differente età e livello formativo (il più delle volte dalla prima alla quinta elementare). Le pluriclassi sono particolarmente impegnative e talvolta oggettivamente penalizzanti per gli alunni, oltre che per gli insegnanti. Apprendere e crescere in una classe con pochi alunni e appartenenti a età e anni scolastici differenti è tutt’altra cosa rispetto al farlo in classi ampie con alunni coetanei e dello stesso livello scolastico.

Più che nelle classi ordinarie, le pluriclassi presuppongono stabilità e non dispersione degli insegnanti, come spesso avviene, in ragione del di più di sperimentazione di metodi didattici, curriculari e organizzativi che esse richiedono. Le pluriclassi hanno bisogno di maestri in grado di dominare approcci e strategie educativi coerenti con l’eterogeneità anagrafica e il grado scolastico degli alunni, di assemblare conoscenza per aggiustamenti successivi via via che è messa alla prova empirica nei contesti specifici, in quella determinata classe, con quegli alunni, in quel preciso luogo. Per le pluriclassi servirebbero insegnanti «artigiani», in grado di adattare sistematicamente il disegno formativo agli esiti concreti, quotidiani, allenati a osservare gli effetti, i cambiamenti e le stratificazioni delle pratiche più che le intenzioni astratte della politica scolastica. A imparare dai fallimenti e a districarsi tra le difficoltà che si manifestano nel processo formativo.

Non esistono atenei dove si formano insegnanti con queste specifiche caratteristiche, abilità e propensioni. Le università laureano insegnanti «comuni», in grado di insegnare in classi altrettanto «comuni». Il ricorso a maestri con preparazione ad hoc per insegnare in pluriclassi – presupposto essenziale per abitare la scuola in paesi spopolati – interpella dunque la formazione universitaria, i dipartimenti umanistici, i profili formativi dei corsi accademici e post-laurea; pone il problema di una formazione appropriata, di programmi didattici costruiti su misura e di insegnanti con una «cassetta degli attrezzi» adeguata per lavorare in contesti educativi e ambientali discordanti dalla norma, in grado di reinventare i processi di apprendimento a partire dall’esperienza. È così che il margine diventa centro, che i bisogni delle scuole rarefatte concorrono ai cambiamenti nella formazione universitaria, che le politiche si «umanizzano» e l’intervento pubblico si ri-territorializza. Che abitare la rarefazione diventa possibile.

L’esempio delle pluriclassi mostra come sia necessario politicizzare la restanza. Che vuol dire innanzitutto riconoscere i cittadini che hanno scelto di restare e la loro voglia di continuare a vivere in luoghi appartati, diversamente appaganti, di praticare forme di vita più «naturali» e meno esposte ai rischi del nostro tempo ipertecnologico e ipernormativo. Riconoscere altresì che la marginalizzazione dei paesi è frutto di scelte politiche e che deficit, carenze e debolezze si cumulano e rinforzano vicendevolmente, rendendo inefficaci interventi su una singola criticità. Vuol dire ripensare le politiche pubbliche centrali, perseguendo forme di cooperazione istituzionale con i livelli locali. Significa altresì politicizzare l’azione pubblica per mettere al centro la questione del potere e dei meccanismi che strutturano e riproducono disuguaglianze nei diritti civili e nella partecipazione democratica: dare la parola alle comunità locali e creare le condizioni per sostenere le capacità e le aspirazioni dei residenti, in primo luogo ricostruendo un’impalcatura di cittadinanza sociale adeguata alle comunità contratte. Restituire loro il potere di auto-riconoscersi come comunità e di decidere sulla propria vita, sull’uso delle risorse locali, fino all’adozione di meccanismi di protezione della rappresentanza delle aree rarefatte nelle principali istituzioni politiche e nel Parlamento.