«La mia sarà una Commissione geopolitica impegnata in politiche sostenibili e voglio che l’Unione europea sia la custode del multilateralismo». Con queste parole, Ursula Von Der Leyen ha riassunto forma e priorità del suo mandato. La nuova presidente della Commissione europea ha presentato a Bruxelles la propria squadra e le proprie linee guida, entrambe disegnate nel solco del difficile equilibrio che ha portato alla sua elezione a luglio con un margine molto risicato. La prima novità sta nei numeri: la rinuncia da parte del Regno Unito, alle prese con una lenta e faticosa uscita dall’Unione, ha ridotto il numero dei commissari a 27, uno in meno rispetto alla Commissione Juncker. Sempre i numeri raccontano di nuovi equilibri e di una scelta attesa ma non scontata: nella nuova Commissione si contano 14 uomini e 13 donne, con una parità di genere – almeno sulla carta – finalmente realizzata. Sostanziale parità anche tra i due principali partiti politici europei, Socialisti e Popolari, che esprimono rispettivamente dieci e nove commissari, mentre la nuova «famiglia» liberale di Renew Europe, che prende il posto di Alde, ha ottenuto sei posti. Uno a testa invece per i Verdi e il gruppo dei Conservatori e Riformisti (Ecr). Per tutti i commissari, presidente esclusa, rimane ancora da superare il voto del Parlamento europeo, previsto nelle prossime settimane.

L’equilibrio (o equilibrismo?) che ha dettato la composizione della nuova Commissione ha prodotto un numero imponente di vicepresidenti, ben otto, di cui tre con funzioni esecutive, destinati ai tre rami principali dell’agenda Von Der Leyen: l’olandese Frans Timmermans coordinerà i lavori dello European Green Deal, le politiche di contrasto e mitigazione del cambiamento climatico; la danese Margrethe Vestager, già commissaria alla Concorrenza nella Commissione Juncker, coordinerà l’agenda per un’Europa «adatta all’era digitale»; il lettone Valdis Dombrovskis, infine, gestirà il ramo strategico chiamato «economia al servizio delle persone». Si tratta di linee che, insieme ad agende come quelle per una «Europa più forte nel mondo» e per «proteggere lo stile di vita europeo», si adattano alle tre sfide, o cambiamenti, prioritari per la nuova Commissione: clima, tecnologia e popolazione, intesa in senso estensivo.

Ma in che modo questa Commissione potrà essere «geopolitica»? Prima di tutto per approccio: gli accenti posti sul multilateralismo e sul ruolo dell’Europa nel mondo, così come l’aver nominato in modo esplicito i tre interlocutori principali, ovvero Stati Uniti, Cina e Africa, sono geopolitici in quanto dialettici e competitivi. La traduzione di questa interpretazione in atto, tuttavia, non è scontata e verrà affidata al successore di Federica Mogherini nel ruolo di Alto Commissario per la Politica estera dell’Unione europea, lo spagnolo Josep Borrell. Tra gli obiettivi da condurre in porto, la costruzione di una politica estera degli Stati membri coerente, lo sviluppo di un processo decisionale chiaro e la creazione di una difesa comune europea.

Geopolitica e multilaterale è anche la sfida assegnata a Timmermans: lo European Green Deal nasce in un contesto globale in cui l’agenda è dettata da un negazionista della crisi climatica come il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e in cui la demografia dei Paesi emergenti non può e non deve essere limitata per decreto. Inoltre, la transizione ecologica non può attendere, anche se l’Europa e gran parte del mondo occidentale sembrano proiettati verso una nuova fase di difficoltà economiche. Alla coppia formata dall’ex presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, Commissario per gli Affari economici, e dal lettone Valdis Dombrovskis, che nell’ambito della sua vicepresidenza esecutiva si occuperà di riciclaggio, unione bancaria e strategia FinTech, è demandata la risposta a questa ulteriore incognita.

Oltre che geopolitica e verde, la Commissione Von Der Leyen dovrà essere «adatta all’era digitale», una missione affidata al coordinamento di Margarethe Vestager e demandata in parte alla francese Sylvie Goulard, candidata per il Mercato interno, responsabile per le politiche sull’intelligenza artificiale, la politica industriale e la difesa, oltre che la cybersecurity. Inoltre sarà chiamata a sviluppare la «sovranità tecnologica» europea, che in questo momento si traduce soprattutto nella corsa al 5G, una partita che andrà giocata con estrema attenzione, e ancora una volta con grande capacità di equilibrio, per non compromettere le relazioni strategiche tanto con Pechino quanto con Washington. Ma se da un lato si teme un’eccessiva concentrazione di competenze e poteri nelle mani di un solo ramo della Commissione, dall’altro rimane intatto un problema già presente nella gestione Juncker, quello della dispersione: altri due commissari dovranno lavorare sulla capacità europea di prevenire, individuare e rispondere alle minacce ibride, sulla disinformazione e sulla sicurezza elettorale, ma nessuno dei due gestirà il dipartimento digitale DG Connect, a cui dovrebbero spettare questi compiti.

È troppo presto per capire quanto Ursula Von Der Leyen saprà imporre un cambio di passo all’Unione. Quel che è certo, però, è che il mondo in cui si dovrà muovere questa Commissione «geopolitica» ricorda soltanto vagamente quello in cui si insediò Jean-Claude Juncker. Tra il 2014 e il 2019 molto è cambiato: l’accordo sul nucleare con l’Iran e quello di Parigi sul clima, firmati nel 2015 e oggi abbandonati dagli Stati Uniti; il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump nel 2016; l’ascesa di movimenti e partiti euroscettici in tutta Europa, culminata con l’arrivo della Lega al governo in Italia nel 2018 e al suo successo alle Europee. Per contro, sono molte le sfide già sul tavolo cinque anni fa e mai risolte: dalle difficoltà economiche alle relazioni con la Russia, fino alle guerre in Siria e in Libia, cominciate nel 2011 e ancora in corso, con il loro portato di morti e rifugiati.

Proprio sulle migrazioni la nuova Commissione è chiamata a riflettere seriamente: affidando al greco Margaritis Schinas le competenze sull’immigrazione, Von der Leyen ha chiesto «un nuovo patto» per «esaminare tutti gli aspetti, compresi i confini esterni, i sistemi di asilo e rimpatrio, lo spazio Schengen di libera circolazione e lavorare con i nostri partner al di fuori dell'Unione». Tuttavia a queste parole, che fanno immaginare una completa revisione della materia, sono seguite altre che disegnano una forte continuità con i mandati precedenti. La nuova presidente ha dichiarato di voler «investire in maniere importante» per rispondere alle cause delle partenze delle persone dai Paesi di origine e di combattere contro il crimine organizzato dei trafficanti, senza però mettere in dubbio il meccanismo del diritto d’asilo. Inoltre, il titolo ufficiale assegnato a Schinas, «proteggere lo stile di vita europeo», fa pensare a un atteggiamento conciliante verso una retorica diventata sempre più popolare, quella secondo cui le persone migranti provenienti dall’Africa subsahariana e dal Medioriente minaccino lo stile di vita europeo. Una scelta certamente infelice, criticata da diverse organizzazioni dedicate alla difesa dei diritti umani e su cui la Commissione ha per ora scelto di evitare commenti.

Se le scelte linguistiche non sono casuali, così come non lo sono quelle organizzative, il timore è che al discorso coraggioso e deciso di Ursula Von Der Leyen faccia seguito un’azione ben più timida, quando non confusa e contraddittoria, figlia di un equilibrismo esasperato con cui dovrà fare i conti. Ancora una volta, non la prima e certamente non l’ultima, la Commissione è chiamata a correre su una corda molto sottile. In passato – pensiamo alla riforma del Regolamento di Dublino – si è spesso scelto di fare passi molto timidi, trasformando grandi propositi in sostanziale immobilismo. La sfida a cui è chiamato questo esecutivo sarà quella di tendere questa corda senza spezzarla, perché il tempo di profonde riforme non può essere ancora spostato in avanti.