Da tempo, ormai, la politica estera ha un ruolo marginale nel dibattito pubblico italiano. Una rimozione che risale alla fine delle Guerra fredda, quando il nostro Paese, liberatosi del peso che la divisione in blocchi del continente aveva imposto alle vite di generazioni di europei, fu costretto a fare i conti con una crisi del sistema politico i cui effetti si avvertono ancora oggi, a più di venti anni di distanza. Completamente assorbiti dallo studio del proprio ombelico, gli italiani sembrano accorgersi di rado di ciò che accade oltre i confini nazionali. Soltanto eventi eccezionali, come catastrofi naturali, guerre o situazioni di grave tensione, del genere di quella che da alcune settimane scuote l'Ucraina, lacerano il velo della cronaca e dell'attualità politica nazionale costringendoci a rivolgere per qualche ora lo sguardo altrove.
Probabilmente questo atteggiamento di "evasione" rispetto alla dimensione politica delle vicende internazionali ha trovato alimento anche nel modo in cui gli italiani hanno vissuto il processo di unificazione europea. Lo spazio economico europeo apparve dischiudere la prospettiva di un benessere privo di costi sociali significativi, che avrebbe inaugurato un'era di progresso senza conflitto. Subito dopo la caduta del muro di Berlino questa visione del destino del nostro continente veniva spesso illustrata richiamando le tesi formulate da Francis Fukuyama nel suo libro sulla "fine della storia". In realtà, il lavoro dello studioso statunitense non era affatto un'apologia del progetto europeo. Rilette oggi, le pagine sul "market oriented authoritarianism" sono tutt'altro che rasserenanti. L'affidamento ingenuo degli italiani nei confronti dell'Europa era piuttosto figlio della delusione nei confronti dei partiti, e del desiderio collettivo di trovare una cornice di princìpi entro la quale collocare le riforme di cui l'Italia aveva bisogno. Oggi sappiamo che questa convinzione si è rivelata illusoria e che ci sono diversi punti di contatto tra quella ideologia dell'europeismo irenico e il "dolce liberalismo" che Ortega y Gasset liquidava come una "marmellata intellettuale". L'edificazione di un regime liberale non rimuove affatto il conflitto dalla storia. Al contrario, un'attenta osservazione delle vicende umane rivela – come ammoniva il buon Hegel – che l'irragionevolezza si associa sia alle passioni sia alle buone intenzioni.
Di qui dovremmo oggi ripartire per pensare l'Europa. Accettare come un'ipotesi corroborata dall'esperienza l'affermazione di Hegel che "le azioni degli uomini derivano dai loro bisogni, dalle loro passioni, dai loro interessi, dal loro carattere e dalle loro capacità, in modo che, in questo spettacolo di attività" che è la storia dell'umanità, "soltanto questi bisogni, queste passioni, questi interessi appaiono come risorse e intervengono come principale movente". Questa è la sfida cui sono chiamati in primo luogo i leader politici che vogliono rilanciare il progetto europeo in vista delle prossime elezioni. Un'Europa dei princìpi che parta dai bisogni, dagli interessi e dalle passioni.
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