Ad Harvard, la più prestigiosa università americana, 125 studenti sono in attesa di essere severamente puniti (sospensione sino a un anno) perché, essendo stato loro assegnato un test da svolgere a casa, gli elaborati sono risultati praticamente identici: copiati. “Violazione del codice d'onore - ha detto il rettore - Fiducia tradita”.
Ho pensato a questo piccolo episodio (ma ne avrei potuti citare molti altri) in relazione al dibattito in Italia sul nuovo provvedimento legislativo in materia di corruzione. Un testo fortemente contrastato in Parlamento, sospinto dalla determinazione del Pd e poi fortunatamente “adottato” nelle sue linee portanti dai ministri Severino e Patroni Griffi, che adesso giace davanti al Senato, in attesa che si consumi (ma spero proprio di no) il cinico braccio di ferro imposto dal Pdl (e dalla Lega, che, anche in versione maroniana, fiancheggia il vecchio alleato): “se volete l'anticorruzione, mollate sulle intercettazioni”.
Nel 2009 il Primo Rapporto al Parlamento del servizio anticorruzione e trasparenza (Saet), gruppo diretto da Sabino Cassese, tracciò un quadro al tempo stesso impietoso e realistico del livello raggiunto dalla corruzione nella vita pubblica in Italia. Nei quattro anni 2004-2008 la corruzione scoperta (cioè misurabile sulle denunce di reati contro la pubblica amministrazione recanti offesa alla sua integrità patrimoniale e al suo buon andamento) ha messo in evidenza circa 3 mila casi all'anno. Il 32% atteneva alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Seguivano altre fattispecie. Interessante era anche l'analisi, diciamo così, geografica della corruzione: tra le prime cinque regioni per numero di denunce si collocavano quattro regioni del Sud: Sicilia, Campania, Puglia e Calabria, seguite a ruota (particolare interessantissimo) dalla Lombardia. Nella classifica delle regioni col più alto tasso di corruzione in rapporto al numero dei dipendenti pubblici, la Calabria deteneva il triste primato, ma seguivano a sorpresa Trentino Alto Adige, Valle d'Aosta e poi Molise e Basilicata.
La corruzione, più diffusa al Sud, è dunque un fenomeno non solo meridionale, per quanto si intuisca che nel grande business delle erogazioni pubbliche mafia e criminalità organizzata giocano un ruolo di primo piano. I costi della corruzione erano indicati nel Rapporto in 50-60 miliardi all'anno, cioè una tassa di circa 1.000 euro all'anno che paghiamo tutti, compresi i neonati.
Ma poi c'è la corruzione non denunciata: l'iceberg sommerso, come lo chiamava il Rapporto del 2009. E di questo fenomeno carsico, decisivo (è quella che al ministero chiamano anche la corruzione “percepita”) conosciamo pochissimo. Su questo versante specialmente occorre lavorare, anche facendo emergere il sommerso con tecniche di rilevazione indirette e introducendo strumenti statistici in grado di censirlo. Per combattere la corruzione infatti serve ma non basta l'azione penale (l'intervento del magistrato). Serve molto, invece, l'azione preventiva in via amministrativa: ed è questa la parte più sostanziale del provvedimento oggi davanti al Senato, e forse proprio quella parte che meno piace al blocco berlusconiano. Contro la corruzione in fieri molto può la trasparenza, cioè l'illuminazione a giorno dei recessi (recessi burocratici, spesso) nei quali il fenomeno della dazione corruttiva matura e prende forma. Molto, in termini di trasparenza (il vero antidoto alla corruzione) lo si è fatto in passato. Moltissimo resta da fare.
Più in generale ci sono tre fattori che, venendo meno nel tempo (parliamo qui di un tempo relativamente lungo, di decenni interi) hanno favorito l'attuale dilagare della corruzione:
1) la fine delle amministrazioni "tecniche", dei grandi corpi dello Stato esperti non nella pratica amministrativa (il rotolare delle carte da una scrivania all'altra) ma nella efficace valutazione delle opere pubbliche, nella previsione dei costi, nell'accertamento degli stati di avanzamento, nella progettazione ecc. Corpi che hanno fatto in passato la gloria dell'amministrazione italiana (il Genio civile, dipendente allora dal ministero dei Lavori pubblici, "ha fatto" letteralmente l'Italia, coi suoi ingegneri e i suoi geometri). E che oggi o non esistono, o sono stati ridotti a pura burocrazia del controllo formale, avendo perduto la propria tecnicalità. Lo Stato e le istituzioni in genere (vale anche per regioni ed enti locali) sono dunque nelle mani dei grandi interessi coi quali vengono in relazione, appaltatori dotati di sofisticati uffici tecnici in grado spesso di fornire all'amministrazione appaltante l'expertise che questa non trova in se stessa. E in questa zona grigia, nella quale vegeta tutto un mondo di consulenti, esperti di settore, più o meno attraversato dagli interessi privati, si annida gran parte della corruzione;
2) la fine dei grandi corpi ispettivi, cioè della capacità delle istituzioni di controllare de facto, non sulla carta (e anche qui ci sarebbe molto da dire, perché il fenomeno è antico: da quando la laurea in legge è diventata il passepartout per tutte le amministrazioni, anche per quelle legate all'attività diretta, all’amministrazione di gestione, come si diceva nel primo Novecento); in Francia esistono addirittura autonome e solidissime branche dell'amministrazione destinate a esercitare i controlli ispettivi (e sono rigorosamente indipendenti dal resto dell'amministrazione, per potere esercitare il controllo con maggiore autonomia). In Italia niente di tutto questo;
3) infine le leggi: nel gran garbuglio delle norme, in particolare di quelle preposte agli appalti ma non solo, si cela la giungla nella quale la corruzione può nascondersi e operare indisturbata. Una semplificazione radicale delle procedure all'insegna della trasparenza potrebbe in questo senso prosciugare l'acqua nella quale l'infezione alligna.
Ho dimenticato un quarto fattore, ma lo darei per presupposto. L'etica pubblica. Il rettore di Harvard è il portavoce di un'etica (protestante, diciamo sempre; ma io direi da Paese civile) nella quale il corrotto e il corruttore non trovano solidarietà. Mondi per noi impensabili, nei quali un ministro si dimette per aver copiato da ragazzo la tesi di laurea. E si dimette perché la gente, l'elettorato, sente quell'atto come un insopportabile tradimento della regola. Ristabilire regole etiche, anche attraverso i codici etici troppo spesso dimenticati, e sviluppare una vasta, profonda revisione del nostro modo di pensare, anche il più quotidiano, potrà far molto. Anzi sarà la terapia vincente. Ma questo, come diceva Gobetti, significherebbe cambiare la testa degli italiani.
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