«Abbiamo perso la nostra dimora, vale a dire l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il nostro lavoro, cioè la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, ossia la naturalezza delle reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione spontanea dei sentimenti» [H. Arendt, Noi rifugiati].

È il gennaio 1943 e tra le pagine della rivista «The Menorah Journal» compare un breve saggio di Hannah Arendt dal titolo We Refugees (Noi rifugiati). Quel «noi» è riferito a quanti, costretti ad abbandonare l’Europa per motivi fin troppo noti, si erano trovati a fare i conti con una nuova categoria politica che sembrava addirsi loro in modo ingombrante e inaspettato.

Il saggio è stato di recente pubblicato da Einaudi, in una nuova edizione curata da Donatella di Cesare. Sono pagine dense di prospettive. Al centro ci sono loro, i migranti, e attorno una realtà che fatica ad accettarli, a riconoscerli e che li lascia ai margini. «L’essere umano è un animale sociale e la vita non è facile quando vengono recisi i legami sociali», scrive Arendt esplicitando come la condizione in cui si trovano questi apolidi cui sta donando la propria voce non tenga conto della natura stessa dell’individuo, così come era stata definita magistralmente da Aristotele. Emerge con tutta la sua drammaticità anche la fatica di accettare la propria nuova dimensione esistenziale, la dialettica tra vita e morte che assume forme e significati inediti, il valore che investe la dinamica dell’accoglienza: «La società ha trovato nella discriminazione il grande strumento sociale di morte che permette di uccidere le persone senza spargimento di sangue».

"L’essere umano è un animale sociale e la vita non è facile quando vengono recisi i legami sociali", scrive Arendt a proposito di questi apolidi

Fatte le dovute distinzioni, sono partita proprio da qui per immaginare un dialogo con l’attivista per i diritti umani Nawal Soufi, al termine dell’incontro con gli studenti dell’istituto Vanoni di Menaggio, cittadina affacciata sul lago di Como. Territorio di frontiera, dove pure varrebbe la pena scovare e raccontare storie che sarebbero un'ennesima declinazione del tema.

Nawal Soufi, la «migrante in terra di migranti» come ama definirsi, è diventata un punto di riferimento per quanti affrontano le rotte dei migranti in Europa: il Mediterraneo, la rotta balcanica e – ancora – quella polacca, al confine con la Bielorussia. Hanno il suo numero salvato nella rubrica del telefono, insieme alle foto dei famigliari e degli amici più stretti. «Ci sono tanti modi di morire per un migrante: in mare oppure in montagna per ipotermia – denuncia – La scelta però è tra il rimanere sotto le bombe oppure provare ad arrivare da qualche parte e salvarsi». E ancora: «Molti di loro affrontano il mare aperto sicuri di saper nuotare, ma quando ti ritrovi tra le onde alte, l’acqua fredda e non capisci in che direzione andare, il corpo cede».

Il suo impegno è un alternarsi di fatiche e momenti di speranza («Viviamo la felicità e l’inferno nello stesso momento») e mentre ricorda i dolori delle madri costrette a gettare i cadaveri dei figli in mare così come la gioia di improvvisare un matrimonio tra due migranti nel campo di Moria con un vestito da sposa comprato a poche decine di euro, ecco che lo schermo dello smartphone si illumina. È la chiamata da un numero non registrato. Risponde e all’altro capo del telefono si sente una voce maschile che parla in modo veloce e concitato. L’espressione del volto di Nawal Soufi si fa più seria, concentrata. Chiude la chiamata e chiede il permesso di mandare seduta stante una mail alla centrale operativa della Guardia costiera italiana affinché si attivino per individuare il barcone in mezzo al mare, nella speranza che possano trarre in salvo più vite possibili. Quindi chiosa: «Potrebbe capitare che tra uno o due giorni sentiremo la notizia al telegiornale di un altro barcone che è affondato e di persone che non ce l’hanno fatta. Potrebbero essere proprio loro».

Il suo impegno è un alternarsi di fatiche e momenti di speranza: ricorda i dolori delle madri costrette a gettare i cadaveri dei figli in mare così come la gioia di improvvisare un matrimonio tra due migranti nel campo di Moria

ILARIA DE PASCA Perché il dibattito sull’immigrazione e sugli sbarchi non riesce ad andare al di là della facile strumentalizzazione e assumere una prospettiva umana, che dovrebbe essere più naturale?

NAWAL SOUFI Penso che serva a tutti strumentalizzare la questione dei migranti. La stampa, per quanto voglia essere rivoluzionaria e riportare l’attenzione sulla tragedia, quando parla di uno sbarco o del numero di persone morte, dovrebbe limitarsi a farlo con parole «povere», semplici. Se si limitasse a raccontare la storia di una bambina, di una madre, di un padre, ecco che la gente si potrebbe immedesimare più facilmente e pensare: «Ecco, questi si potevano salvare». Se noi facessimo questo, forse buona parte delle persone che si proclamano razziste starebbero in silenzio e non scriverebbero frasi come «che affondino» o «uccideteli». Bisogna tornare a un tocco più umano nella comunicazione. Non un approccio numerico, non un approccio statistico, ma raccontare le storie delle persone.

IDP Arendt scrive «Un tempo eravamo persone di cui gli altri si preoccupavano, che gli amici amavano e che persino i padroni di casa conoscevano per la retta d’affitto pagata regolarmente. Un tempo potevamo andare a fare la spesa o viaggiare sulla metropolitana senza sentirci etichettare come indesiderabili. Siamo diventati un po’ isterici da quando i giornalisti hanno cominciato a scovarci dicendoci pubblicamente che dovevamo smettere di risultare sgradevoli quando compriamo il latte e il pane». Un altro problema per chi è migrante è il non riuscire a togliersi di dosso quell’etichetta. Cosa ne pensi?

NS Sì, è vero. Sarà sempre un migrante. Ma, da questo punto di vista, l’Italia guadagna qualche punto in più. Nonostante chi è impegnato nella lotta per i diritti umani pensi che questo Paese sia uno dei posti peggiori dove un rifugiato può vivere, a confronto di altri Paesi europei attraversati dai migranti (Grecia, Italia, Croazia, Ungheria, Polonia), quando vengo in Italia mi trovo bene. Tanti rifugiati che ho incontrato negli anni amano l’Italia e sostengono che il razzismo da noi sia legato più a una questione d’ignoranza che di cattiveria. Se da migrante dovessi scegliere un Paese dove vivere tra quelli attraversati dalle rotte dei migranti, sceglierei l’Italia.

Altrove, il razzista non aiuta l’immigrato ed è pronto subito a denunciarlo: individui che ormai si sono stabilizzati continuano a vivere diversi problemi; in Italia, invece, la convivenza tra italiani e migranti è migliore.

IDP Nelle pagine del saggio di Donatella Di Cesare, leggiamo: «Il verbo “migrare” indica il cambio, o meglio, lo scambio complesso di luogo, e rinvia al paesaggio in cui si incontra l’altro, un incontro che, per via del luogo, potrebbe anche precipitare in uno scontro. Migrare è un atto esistenziale e politico». Indica insomma la scommessa di un essere umano che, arrivando in un Paese nuovo, deve sperare di essere accolto. Sei d’accordo con questa definizione?

NS Partiamo dal presupposto che la maggior parte di queste persone non vorrebbe lasciare il proprio Paese. Non partono pensando sia un atto rivoluzionario, né perché vogliono scoprire altri mondi o con la volontà di sfidare le frontiere. Questa visione romantica non rispecchia la verità. Anche le persone che vivono problemi come la mancanza di libertà di espressione spesso dicono che se non rischiassero la morte o l’arresto nel Paese d’origine, non lo lascerebbero. Quando si migra, si migra perché si è arrivati all’ultimo step della disumanità. Quando proprio non riesci a curare tuo figlio in ospedale, hai una madre con un tumore e non essendoci cure accessibili la vedi morire davanti a te, quando vivi in mezzo ai bombardamenti, agli stupri e agli arresti, allora ti metti su una barca. Se la terra è meno sicura di quella barca, solo in questo caso.

Quando si migra, si migra perché si è arrivati all’ultimo step della disumanità

IDP Un cenno al binomio migrazione e diritto. Per affrontare il fenomeno migratorio dal punto di vista normativo, mancano ancora delle norme o basterebbe applicare attentamente quelle che ci sono?

NS Ci sono alcuni buchi normativi ma quello che manca a livello nazionale è colmato dalle regole e dalle leggi del mare riconosciute a livello internazionale. Esistono le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno creato dei precedenti in tante materie. Quindi, si tratta solo di rispettare le norme e riconoscere i diritti: non basta averli scritti sulla carta. Difendere queste persone significa applicare quello che già abbiamo, per cui abbiamo votato. È impossibile che ci sia una norma oggi che dica «affondiamo una barca». Salviamoli e poi possiamo decidere a quali spetta l’asilo e quali vanno respinti. Ma non c’è norma che dica «uccideteli». È ancora prima di tutto questo ci dovrebbe essere quell’«ama il prossimo tuo».

IDP In questo ultimo passaggio che sembra riproporre l’antico dibattito tra nomos e physis, legge dell’uomo e legge della natura, c’è probabilmente lo snodo da cui bisognerebbe ripartire per cambiare i termini del dibattito sulla questione. Un’ultima domanda riguarda la scelta da parte di Nawal Soufi di incontrare gli studenti e di spronarli ad impegnarsi, a raccontare e a informare. Hai fiducia nei giovani?

NS Io nelle scuole vedo tanta speranza. Dobbiamo ricominciare da qui. I partiti si sono arresi. La visione del mondo che hanno questi giovani non è legata al partito ma a principi universali, che vanno rispettati e affermati al di là dei governi, delle coalizioni e dei partiti. Bisogna lavorare molto sulle scuole e su quanti tra poco eserciteranno il diritto di voto. E poi questa è un’età molto bella perché sono ancora capaci di ascoltare. Mentre col passare del tempo le idee che ti sei fatto diventano sempre più una corazza.