L’articolo di Carlo Galli su Matteo Renzi esprime la rappresentazione plastica di una frattura che attraversa la sinistra italiana, e che sarà epicentro della discussione all’interno del Pd in vista del prossimo congresso. Una frattura originata dal confronto fra due diverse culture politiche. L’una orientata a sostenere la necessità di un partito fortemente strutturato, autonomo dalle istituzioni, legato agli iscritti e di matrice prevalentemente socialdemocratica. L’altra favorevole a un partito più flessibile, orientato soprattutto al lavoro dentro le istituzioni, in cui abbiano spazio gli elettori e di matrice prevalentemente democratica (o liberal-democratica).
Di queste due culture si può discutere in modi diversi. Si può inscenare un confronto quasi ontologico fra irriducibili concezioni del mondo (oltre che della politica e della storia), come se si trattasse di una disputa sulla natura essenziale di un’entità particolare. Oppure si può intavolare una discussione meno partigiana e più pragmatica, partendo dalle proprie convinzioni in merito, ma sforzandosi di suffragarle a partire da uno sguardo disincantato sulla realtà che ci circonda, in base alla genuina convinzione per cui ciò che più conta è trovare la via giusta per costruire un partito utile al Paese, prima che magari questa impresa riesca a qualcun altro.
La strada giusta è senza dubbio la seconda, e credo che l’invito di Michele Salvati a discutere di cinque temi per la scelta di un candidato vada proprio in questa direzione. In particolare, due dei cinque punti proposti da Salvati sono quelli che meglio incarnano il confronto fra le due culture politiche in gioco: l’orizzonte ideologico-culturale e la forma partito. E non vi è dubbio che, rispetto a questi due temi, le candidature di Matteo Renzi e Gianni Cuperlo incarnino in modo visibile il confronto fra le due culture.
Rispetto all’orizzonte ideologico-culturale, gli studi sulle trasformazioni dei partiti socialisti e socialdemocratici europei dimostrano come negli ultimi quarant’anni questi partiti abbiano in misura diversa integrato la loro cultura politica con elementi derivati dalla tradizione liberal-democratica. Una contaminazione che nella stragrande maggioranza dei casi è avvenuta senza grosse ripercussioni sull’orientamento di militanti e dirigenti. L’innesto liberal-socialista non è stato perciò vissuto come una lacerazione del tessuto ideologico-culturale che faceva da collante per quei partiti e, soprattutto, non ha prodotto quella reazione anti-liberista che alimenta in chiave retorica una parte consistente del dibattito in corso nel nostro Paese. Perché mai un percorso simile dovrebbe essere precluso alla sinistra italiana, che negli ultimi venti anni ha dovuto confrontarsi con una destra tutt'altro che neo-liberista, la cui principale preoccupazione è stata quella di preservare interessi corporativi storicamente consolidati intorno a privilegiate e ristrette cerchie sociali?
Rispetto alla forma partito, le trasformazioni sociali degli ultimi decenni hanno progressivamente imposto cambiamenti assai profondi nel modo di far politica, nelle forme della rappresentanza e nei connotati delle leadership. Tali trasformazioni sono all’origine dell’evoluzione dei partiti di massa verso modelli di stampo professionale/elettorale, in cui il partito assume sempre più i tratti specifici di un soggetto organizzativo finalizzato alla ricerca di un consenso congeniale all’azione di governo. Un luogo della rappresentanza capace di fare i conti con la democrazia del pubblico e le sue regole, ma anche con la necessità – sempre più impellente – di costruire il proprio consenso al di fuori dei tradizionali riferimenti sociali. Uno strumento mirato alla selezione di una classe politica capace di rappresentare e mediare in un contesto in cui la politica non vanta più alcun primato e il governo richiede condizioni di riconoscimento (autorevolezza/competenza) che non possono fondarsi esclusivamente su rapporti di forza favorevoli dal punto di vista elettorale. Che senso ha una discussione pervicacemente incline a ribadire l’immagine di un partito come struttura articolata in grado di organizzare una parte della società, elaborando progetti di sviluppo umano, al fine di conseguire la partecipazione ad un destino comune di emancipazione e di progresso? E perché mai considerare questa possibilità alla stregua di un’alternativa concretamente perseguibile (che qualcuno vorrebbe scartare a priori) se non vi è una sola esperienza riconducibile a questo modello nell’ambito delle democrazie avanzate del mondo occidentale?
Sono questi gli interrogativi che dovrebbero alimentare la discussione nel Pd in vista della scelta del prossimo segretario. Interrogativi che riguardano la dialettica fra due culture politiche ormai allo show-down finale. Renzi e Cuperlo – per quanto è dato fin qui capire – sono i “campioni” di questo confronto. Sottrarre la valutazione delle qualità di questi candidati a un’analisi in grado di rifuggire i pregiudizi, riconducendo i rispettivi profili alla matrice culturale e politica che degnamente incarnano, è senza dubbio più utile a comprendere il vero travaglio che sta attraversando la sinistra italiana.
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