È di questi giorni l'acceso dibattito a proposito dell’opportunità o meno di far pagare un biglietto d’ingresso per visitare il Pantheon. Dobbiamo adeguarci alla nuova frontiera del mettere a reddito il nostro patrimonio artistico? Oppure no, essendo la cultura un qualcosa da tenere libero a tutti nel nome dell’articolo 9 della Costituzione? Se entrambe le posizioni hanno una loro legittimità, è anche vero che un dibattito del genere segnala il nostro ritardo culturale. In un Paese di media civiltà, infatti, da decenni ci sarebbe all’ingresso di quel nobilissimo monumento un tornello che si apre ogni volta inserendo una moneta da 1 euro, che è poi il costo della sosta di un’auto per un’ora a Roma.
Ciò premesso, la questione appare comunque interessante poiché indica un altro e ben più grave ritardo culturale. L’accettare – tutti e in primis il Mibact – che il nostro patrimonio storico e artistico sia insieme liquido e solido. Liquido, col suo essere da sempre confinato in un ruolo metafisico di bene o valore ideale – tanto che ancora oggi non ne abbiamo un catalogo, così che non sappiamo quante, come, dove e in quale regime giuridico di proprietà siano le cose da conservare nel Paese. Solido, perché patrimonio costituito da manufatti di concretissima costituzione materiale e presenti ovunque sul territorio. Un ossimoro alla fine composto in due modi. Sul piano conservativo, nel consegnare la gran parte di quel nostro patrimonio a una pura e semplice vicenda di decadenza materiale tanto per incuria e abbandono, come per insensato eccesso di restauri. Sul piano economico, nel continuare a non capire che un sistema ideale di valori rende impossibile distinguere tra azioni utili e giustificate, da altre puramente formali o oblative. Col risultato, sotto gli occhi di tutti, che sarà considerato utile e giustificato sempre e solo l’intervento minimo. Dal restauro con finalità solo estetiche, all’economia della bigliettazione.
Quindi? Premesso che quanto detto sopra pone ancora una volta l’azione di tutela come sfida non fronteggiabile se non da un’intera comunità scientifica, restiamo all’aspetto economico del problema. Diceva Keynes che «in campo urbanistico, i più vantaggiosi effetti di sviluppo si ottengono solo mirando a rendere più belle le città». Parafrasando il grande economista, potremmo dire che «in campo economico, i più vantaggiosi effetti di sviluppo si ottengono solo mirando a valorizzare ciò che rende unico al mondo il nostro patrimonio storico e artistico: la sua indissolubilità dall’ambiente su cui è andato stratificandosi in millenni». Un’impresa di valorizzazione, questa, certo lontanissima dal poter essere realizzata col sostituire i direttori dei musei italiani con altri stranieri o continuando a pensare le soprintendenze come centri di ricerca storica, così ribadendo l’idealità dell’azione di tutela. Bensì finalmente misurandosi con l’ineludibile realtà della principale forza formatrice del nostro tempo, la tecnica moderna. Quindi capendo che l’unico modo, oggi, per affrontare il tema della tutela sul piano della società, quello in cui davvero tutto si decide, è di farne tema d’innovazione tecnica e d’immaginazione scientifica.
Si pensi alle moltissime occasioni di un lavoro qualificato, specie per i giovani, che ciò produrrebbe. Nella formazione, innanzitutto. Ma anche in una ricerca scientifica che per prima cosa delimiti i confini dell’universo che si vuole esplorare, che è poi la premessa per ogni impresa che voglia darsi un destino. Restiamo, per fare un solo esempio, al grande tema dei centri storici, oggi sempre più in via d’abbandono, sia perché museificati in ogni luogo d’Italia sull’onda dell’ideologica ubriacatura storicistica degli anni Settanta, sia per l’abbandono del territorio, specie medio e alto collinare. Come uscire dal problema? Semplicemente (si fa per dire) riprogettandoli secondo le esigenze dell’abitare d’oggi, quindi esplorando campi come quelli della domotica, dei nuovi materiali dell’edilizia, dei trasporti leggeri, del cablaggio, dell’efficientamento energetico, della scienza delle costruzioni, del riuso degli edifici (monumentali e non), o delle città satellite, esplorazione che condurrebbe a una produzione industriale già in partenza leader visto che si applicherebbe a settori di mercato del tutto nuovi. Si pensi inoltre al lavoro che si creerebbe nella messa in sicurezza del territorio, nell’agricoltura sostenibile, e quant’altro.
Un progetto certamente costoso, che bisognerebbe all’inizio chiedere all’Europa di finanziare, ben sapendo che, per citare di nuovo Keynes, in economia si ottiene molto solo investendo molto. Ma anche un progetto unico al mondo (come unico al mondo è il «caso Italia» per quantità, qualità e onnipresenza territoriale di beni), la cui complessità d’elaborazione non mi pare alla portata di chi dibatte di biglietti, gadget ecc., vantando l’aumento degli introiti e quant’altra banalità, ma mai aggiungendo che, se ciò è vero per il Colosseo e per non più d’una ventina di altri musei nazionali, è assai meno vero per un territorio su cui insistono oltre centomila chiese e altrettanti palazzi storici, diecimila tra città, paesi e loro frazioni, tutti con un proprio centro storico, e quattromila e passa musei tra comunali, diocesani e privati.
Un solo esempio, il museo di Montalto delle Marche dove è conservato uno dei massimi capolavori dell’arte orafa dell’Occidente, un reliquario in argento dorato, smalto e pietre preziose realizzato alla fine del Trecento per Carlo V di Francia, poi passato a Lionello d’Este, da lì a papa Barbo che dona al Vaticano e infine giunto a Montalto per volere di Sisto V Peretti, che lì era nato. Un oggetto di bellezza e storia travolgenti collocato in un museo che, quanto a biglietti, produce un gettito con cui, pagati, pulizia, riscaldamento, luce e custodi, alla fine si possono comperare forse una decina di pizze. Il che significa, non fare in modo che a Montalto vadano le folle, come ragionevolmente (e fortunatamente) mai accadrà, bensì finalmente capire che il patrimonio artistico italiano si conserva solo se si riuscirà a trovare il modo per riabitare i territori su cui insiste.
E qui si arriva alla politica dei beni culturali, la stessa la cui attuazione nel senso della conservazione in rapporto all’ambiente stiamo aspettando dal 1975 della fondazione del ministero dei Beni culturali voluto a tutti costi da Spadolini, ma da lui creato come «una scatola vuota» (definizione di Sabino Cassese) e da allora rimasto tale.
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