Roma ha fatto quel che poteva per accogliere i nuovi arrivati. Chi viene da climi meno miti ha trovato persino un sole primaverile che induce all’ottimismo. A patto di non leggere le cronache locali – che raccontano di una città in crisi come il resto del Paese, e con una preoccupante recrudescenza di crimini violenti – ci si potrebbe illudere di essere arrivati nel luogo ideale per discutere in modo ragionevole, smussando gli angoli e mitigando le asperità. In realtà, le due capitali che convivono, e in alcuni quartieri si sovrappongono, sulle rive del Tevere sono scosse da un’inquietudine diffusa e muta, un senso di smarrimento morale, che nemmeno la proverbiale capacità dei romani di trasformare le avversità in farsa riesce a mitigare.
Due crisi di credibilità sembrano essere giunte a una svolta, i cui esiti sono allo stato imprevedibili. C’è tuttavia una differenza significativa tra le due. La crisi vaticana è stata innescata dal Pontefice stesso che, con un gesto inatteso, ha imposto un’accelerazione che potrebbe mettere in moto un processo di rinnovamento della Chiesa. Per quanto sconcertati dalle dimissioni di Benedetto XVI, i porporati che si apprestano a eleggere il nuovo papa non hanno fino a ora manifestato propositi rivoluzionari. La sensazione che si avverte è anzi che ci sia un consenso piuttosto ampio sul fatto che la crisi morale dipenda in larga misura da difetti nella governance della Chiesa come istituzione. Che potrebbero essere adeguatamente affrontati, e forse risolti, da un nuovo pontefice dotato di sufficiente autorità ed energia. Un uomo che riesca a mettere insieme il meglio delle intelligenze disponibili per farle lavorare a uno scopo comune.
La crisi repubblicana, purtroppo, è di tutt’altro segno. Ha i tratti dell’ultima chiamata, che stavolta viene da una forza politica che ha caratteristiche inedite e per certi versi inquietanti. Difficile da classificare con categorie come “sinistra” e “destra”, “riformatori” e “conservatori”, cui molti sono ancora – a mio avviso giustamente – affezionati. Si avverte un ritardo nella capacità di mettere a fuoco il profilo sociale e politico di un fenomeno che, sia nei metodi sia nei contenuti, potrebbe evolversi in modi diversi. I primi riscontri a questa sfida provenienti dai partiti e dal mondo dell’informazione sono stati per ora soprattutto reattivi. Un riflesso comprensibile ma pericoloso. Le democrazie si mantengono sane e stabili se riescono a trovare un punto di equilibrio virtuoso tra principio aristocratico e principio popolare nella selezione dei governanti. Nessuna democrazia può permettersi di ignorare a lungo una profonda crisi di credibilità delle proprie istituzioni politiche.
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