La discussione, gli atti giudiziari, le scelte politiche e le proteste relative al cosiddetto Tap (Trans Adriatic Pipeline), il gasdotto trans-adriatico che convoglia gas dall’Azerbaijan all’Italia, rimandano a una serie disparata di temi – dalle scelte economiche nazionali alla relazione fra locale e globale, alla democrazia, alle politiche energetiche. Ma c’è un aspetto non del tutto messo a fuoco che riguarda le nostre idee sulla natura e sul suo valore. I lavori per il gasdotto hanno richiesto l’espianto di ulivi centenari nel Comune di Melendugno. La procedura impiegata dalla ditta che esegue i lavori consiste nel mettere a dimora gli ulivi in grandi vasi, che consentono di mantenere integre o quasi le radici, in attesa di ripiantarli a lavori finiti. Una delle obiezioni dei comitati No Tap è che questa procedura mette a rischio la sopravvivenza degli ulivi. Questa posizione è espressa nel comunicato stampa n. 1 del 7 aprile 2016: «Non ci sono soldi che ripaghino la natura o la salute». In un anno, l’attenzione al problema ambientale si è notevolmente illanguidita: nel comunicato n. 15 i No Tap affermano che «Tap è un problema socio-economico e, molto dopo, ma solo molto dopo, ambientale».
L’obiezione ambientale al Tap si fonda su due premesse: in primo luogo, una premessa empirica, secondo cui l’espianto e il successivo reimpianto metterebbero a rischio la sopravvivenza degli alberi; in secondo luogo, una premessa di valore, secondo cui il valore di questi alberi – anche e soprattutto considerandone l’età – giustifica maggiori spese, o addirittura il blocco del cantiere, e non valgono considerazioni più ampie, come il fatto, sottolineato dal ministro, che il gasdotto consentirebbe all’Italia di dipendere meno dal carbone, che inquina più del gas.
L’idea sembra essere che gli ulivi abbiano un valore in quanto tali, in quanto elementi naturali del paesaggio e per la loro relazione anche storica con esso – per questo, ad esempio, si insiste sul fatto che alcuni di questi alberi sono lì da un secolo. La natura ha un valore in sé e questo valore va tutelato, e viene messo a rischio da operazioni come l’espianto e il reimpianto. Questo rischio, peraltro, non può essere compensato da altri benefici.
A questa posizione estremista se ne può contrapporre una moderata, secondo la quale, anche assumendo che la natura abbia valore, questo valore non è assoluto e può essere sopravanzato da altri valori. Il rischio di perdere alcuni ulivi può venire compensato da vantaggi di altra natura.
Per quanto sembri plausibile, la posizione moderata non è priva di problemi e l’estremismo ambientale non è del tutto campato in aria. Lo si può capire grazie a un’analogia. Nell’agosto del 2013 un bassorilievo di gesso di Antonio Canova, l’«Uccisione di Priamo», venne staccato da una parete del muro dell’Accademia d’Arte di Perugia, cui era stato donato dagli eredi Canova nel XIX secolo, per essere trasportato ad Assisi, in occasione di una mostra su Canova. Per una caduta, il bassorilievo andò in pezzi. Solo l’anno scorso, dopo un restauro difficilissimo, l’opera è ritornata nella Gipsoteca di Possagno. L’episodio ha suscitato molte polemiche, soprattutto sull’opportunità di spostare le opere d’arte in giro per il mondo per aumentare il numero di chi può vederle e incrementare i profitti delle gallerie e dei musei. Altre opere di cui si è discusso sono i Bronzi di Riace, ad esempio, che si volevano spostare a Milano per Expo, o un gigantesco affresco di Botticelli, trasferito a Pechino.
Anche in questo caso le questioni sono due: i rischi corsi durante il trasferimento e il valore delle opere, in quanto pezzi unici, o quasi (c’è un’altra versione del bassorilievo di Canova, a Venezia). Anche in questo caso per molti il valore dell’opera d’arte sembra tale da rendere inaccettabile qualsiasi rischio. Ma nel caso delle opere d’arte, la posizione estremista non sembra poi così poco plausibile. Immaginiamo, appunto, che il restauro del bassorilievo canoviano fosse stato impossibile (come pareva all’inizio). Per molti di noi, si sarebbe trattato di una perdita irrimediabile, non compensata dal fatto che il rischio fosse necessario per ottenere i vantaggi – economici e sociali – di un’ulteriore mostra itinerante. E si sarebbe trattato di una perdita anche se dell’opera esiste un’altra versione. Una perdita ancora maggiore avremmo avuto se si fosse trattato di un pezzo unico. E d’altra parte, la nostra società non esita a mobilitare risorse economiche ingenti per proteggere manufatti non necessariamente pregevoli, ma solo rari. E la rarità è un aspetto essenziale della nostra percezione del valore delle opere dell’ingegno umano: se scoprissimo che Leonardo da Vinci ha dipinto altre otto copie identiche della Gioconda, indistinguibili da quella che credevamo originale, che penseremmo? Saremmo così pronti come siamo a proteggere la Gioconda che adesso sta al Louvre? (In realtà, alcune copie della Gioconda esistono, anche se non di Leonardo, parrebbe. E il quadro venne trafugato dal Louvre nel 1911.)
Gli ulivi che si dovrebbero espiantare a Melendugno sono 211 e 7 sono quelli secolari. Una legge della Regione Puglia del 2007 definisce alcuni ulivi pugliesi «monumentali», per via della loro età plurisecolare o per l’accertato valore storico-antropologico. Accetteremmo che queste piante venissero portate in giro per il mondo, magari in musei botanici itineranti?
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