Il 20 maggio scorso, il giorno in cui a Roma la Camera dei deputati licenziava il ddl sulla scuola marginalmente migliorato che è ora all’esame del Senato, è stata pubblicata in Francia la riforma del collège (il ciclo corrisponde grosso modo alla nostra scuola media e primo biennio delle superiori) promossa dalla ministra Najat Vallaut-Belkacem.
Basterebbe l’ampiezza del dibattito pubblico che il progetto ha suscitato a marcare la distanza che separa la Francia e l’Italia: là, una corposa élite intellettuale che agisce dentro e intorno l’apparato statale considera, a torto o a ragione, l’éducation nationale che li ha formati il perno dello Stato; qui, i silenzi su “La Buona Scuola” (malgrado la mobilitazione dal basso di insegnanti e famiglie) confermano il sostanziale disimpegno delle élite nostrane dall’istruzione pubblica, dalla quale del resto non passa certo la loro selezione.
Va detto, però, che in Francia una parte consistente di quell’élite si è schierata contro la riforma. Facendosi scudo di un’ideologia della scuola repubblicana del merito e della promozione attraverso gli studi ancora intrisa di riferimenti alla Terza Repubblica, uno schieramento trasversale di intellettuali, appoggiato dalla destra, si è fortemente opposta all’idea del governo socialista Valls di ripensare un sistema meno centrato sulla selezione meritocratica e più sull’integrazione sociale.
Il cosiddetto collège unique è nato nel 1975 (è sensibile lo scarto con l’Italia, dove la scuola media unica risale al 1962, spia della reticenza francese a superare i moduli della Terza Repubblica, appunto) dalla fusione degli studi medi classici propedeutici al liceo e dell’istruzione professionale destinata alle classi popolari, una separatezza appena mitigata dal passaggio di una piccolissima minoranza di studenti meritevoli da una filiera all’altra. Nel nuovo sistema, però, attraverso un complesso sistema di opzioni e di percorsi d’eccellenza, si sono rapidamente riprodotte filiere diversificate socialmente. Così le famiglie agiate possono sfruttare al meglio un sistema scolastico pubblico che lo Stato non ha ancora dismesso, e che, anzi, resta al cuore della pervasività tutta francese dello stato sulla società e un mito nazionale.
Chi in Italia (come me) deplora la ritirata dello Stato dall’istruzione guarda spesso con invidia la Francia. Se però si lascia per un attimo la visuale dall’alto – il punto di vista di quelle élite che quel sistema continua egregiamente a produrre – appaiono molte ombre. Secondo tutte le statistiche, infatti, la Francia è il Paese europeo dove si registra la massima divaricazione di risultati scolastici a seconda del contesto sociale. Nonostante il massiccio investimento, l’eccellenza produce disparità poiché non è più addossata a una crescita economica e sociale tale da compensare la selezione naturale all’interno del sistema scolastico “meritocratico”. Banalmente, il merito coincide quasi del tutto con la classe. Non solo: secondo diversi esperti, è cresciuto tra gli allievi delle classi popolari il senso di estraneità, se non di rancore, verso un’istituzione dalla quale si sentono disprezzati prima ancora che delusi.
Insomma, anche in Francia l’ascensore della scuola si è bloccato, quell’ascensore che pure aveva permesso fino a qualche decennio una forte mobilità sociale. In questo senso, si deve riconoscere che per una parte dei detrattori, diciamo quelli nati ancora fino alla metà degli anni Sessanta, la scuola del merito non è mera ideologia, ma esperienza vissuta. Ma ciò non toglie che essi esprimono la nostalgia per un sistema che non esiste più nella realtà di un paese sempre più diviso; difendendo se stesse, queste élite si rifiutano di vedere che il problema della meritocrazia si configura oggi in modo drammaticamente diverso in termini di esclusione e frammentazione sociale e culturale. Basterebbe la rivolta delle banlieues del 2005, senza evocare gli attentati del gennaio 2011, a dimostrarlo.
In poche parole, a cinquant’anni dalla sua creazione, il collège unique pare aver disatteso gli obiettivi per cui è nato. Il progetto Vallaut-Belkacem tenta quindi di cambiare rotta. I principali suoi punti sono l’abolizione delle cosiddette filières cachées come le scuole bilingui, le opzioni considerate difficili come il latino, per rafforzare invece le materie di base (alle quali vengono dedicate alcune ore settimanale in più) e la seconda lingua viva per tutti; cambia anche il modo di insegnare perché le scuole hanno autonomia di definire nel 20% dell’orario i propri programmi e svolgerli per grandi temi con équipe interdisciplinari di docenti, o in piccoli gruppi o sostegno individuale per motivare e sostenere gli studenti più deboli.
Questo approccio ha sollevato molte critiche. In alcuni casi è stata la difesa di insegnamenti ridimensionati (in particolare le lingue e letterature classiche, che molti importanti intellettuali hanno invece proposto di estendere a tutti), in altri della preoccupazione degli insegnanti per un nuovo tipo di didattica. Ben più comuni, però, sono state le denunce contro l’“egualitarismo”, il “livellamento verso il basso”, la “mediocrità intellettuale”, la “fine della scuola del merito”. Si aggiunga che, in concomitanza e in parziale nesso con la riforma del collège, sono stati ridefiniti i programmi di alcune materie. Come sempre, quelli di storia sono stati i più controversi: grida di scandalo ha strappato l’indicazione di trattare più estesamente della civiltà islamica e del Mediterraneo, dello schiavismo e del colonialismo, in generale di aprire la visuale al di là dei confini nazionali, anche ridimensionando fenomeni fondamentali come l’Illuminismo (che, diciamolo pure, i francesi considerano una loro invenzione…). Su questo punto, il governo ha poi opportunamente corretto la rotta.
A queste proteste, i difensori della riforma hanno risposto che si tratta di decidere a che serve la scuola pubblica e, in fondo, che tipo di società si vuole. E hanno tirato dritto con una decisione che la presidenza Hollande non aveva ancora conosciuto.
Nessuna riforma della scuola è priva di rischi; complesse per natura, tutte sollevano resistenze. Ci vorranno anni per capire se il nuovo collège unique riuscirà a migliorare i risultati complessivi, diminuire le diseguaglianze senza indebolire le eccellenze, promuovere una maggiore integrazione sociale senza provocare un’emorragia delle classi agiate verso l’istruzione privata.
Già ora, comunque, non si possono non notare le differenze tra Francia e Italia. Colpiscono, come si diceva, le differenze nella struttura e nei meccanismi di riproduzione delle élite, e così il coinvolgimento dello Stato nell’istruzione. Colpisce poi il modo opposto in cui due governi di centrosinistra stanno affrontando la questione scuola. Là un intervento centrato sui contenuti e i metodi dell’insegnamento, qua sullo statuto giuridico dei docenti e i poteri dei dirigenti; là una maggiore autonomia didattica, qua un’autonomia tutta gestionale; là si sopprimono le opzioni che creano distinzione sociale, qua si introducono con tanto di sponsor privati. Insomma e su tutto, là una riforma fatta in nome dell’uguaglianza, qua una riforma in nome della libertà che tende addirittura ad assecondare le disparità. Come se l’Italia non fosse già un paese diviso e inchiodato alle sue contraddizioni sociali. Ecco: invece di guardare all’Inghilterra e agli Usa, per una volta il governo Renzi dovrebbe guardare alla Francia.
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