Un milione e mezzo di persone, più dell’intera popolazione di Milano. È questa la dimensione dell’emergenza degli sfollati della guerra in Ucraina. Una crisi che non lambisce le nostre coste, non minaccia i nostri confini ma non per questo richiede meno attenzione da parte dei Paesi occidentali. Perché gli sfollati ucraini, se possibile, sono persino meno fortunati di altri. Li chiamano Idp. Uno sterile acronimo che sta per internally displaced persons, rifugiati interni. La definizione esatta la dà l’Onu: «Gli Idp sono persone che sono state costrette a lasciare le loro case in conseguenza di un conflitto armato, violazioni di diritti umani o disastri causati dall’uomo, che non hanno attraversato alcun confine internazionalmente riconosciuto».
Perché è qui la particolarità degli ucraini che scappano dalla guerra. Il fatto che la loro fuga non finisca su una spiaggia dell’Unione europea o contro un filo spinato ai confini di Schengen. A differenza di altri popoli in fuga da conflitti, gli abitanti delle aree in guerra nell’Est dell’Ucraina non hanno molte speranze di ottenere asilo nell’Ue. L’Ucraina è grande e le regioni separatiste solo una piccola porzione del territorio nazionale. C’è posto per tutti nelle altre regioni.
Ma all’entusiasmo e all’accoglienza iniziali da parte dei connazionali sta subentrando stanchezza e indifferenza. Anche a causa delle errate politiche di Kiev e della quasi completa mancanza di assistenza pubblica alle famiglie di sfollati. Per questo, in un Paese a cui è stata sottratta la Crimea, impegnato in una guerra sanguinosa e costosa e sull’orlo del default, quel milione e mezzo di sfollati si sta trasformando in una grande tragedia umana.
All’entusiasmo e all’accoglienza iniziali da parte dei connazionali sta subentrando stanchezza e indifferenza
Le cifre sono come sempre incerte. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) parla di 1,4 milioni di persone registrate dal sistema centralizzato del ministero delle Politiche sociali dell’Ucraina. Ma è sempre lo stesso Unhcr a dire che «il numero reale di Idp è sconosciuto e molto probabilmente più elevato». I dati ufficiali non tengono infatti conto di chi non si è registrato, perché teme di essere arruolato o perché ha paura di ritorsioni nei confronti dei parenti rimasti nei territori occupati, né di coloro che hanno scelto di trovare rifugio nelle cosiddette repubbliche di Donetsk e Luhansk, fuori dal controllo di Kiev. Un altro servizio dell’Onu, l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, conferma la cifra ufficiale, ma parla di 3,2 milioni di persone direttamente coinvolte dalla guerra e addirittura cinque milioni di persone che hanno bisogno di assistenza. E sono cifre in crescita, nonostante la guerra pare aver superato i momenti peggiori.
La gran parte di queste persone non ha fatto molta strada. Circa la metà – 745 mila persone – si sono fermate nelle stesse regioni di Donetsk e Luhansk da dove provengono, appena al di fuori delle zone in guerra, in territorio sotto il controllo di Kiev. Gli altri sono sparpagliati nel resto dell’Ucraina, in gran parte nella capitale – più di 100mila – e nelle regioni occidentali. Solo 388 mila ucraini hanno chiesto asilo nei Paesi vicini, quasi tutti – ben 383 mila – nella sola Russia.
In questi numeri, però, non c’è solo chi scappa dal Donbass in guerra. Secondo l’associazione Crimean Diaspora, circa 60 mila ucraini sono fuggiti dalla penisola annessa con la forza dalla Russia nel marzo 2014, riferendo di intimidazioni e minacce. Tra questi ci sono molti attivisti ucraini che si sono opposti all’annessione e molti componenti della numerosa comunità tatara, che hanno denunciato pesanti discriminazioni.
Partono a bordo dei marshrutka, i minibus pubblici che costano solo qualche gryvnia. Passano prima i posti di controllo dei ribelli, poi quelli dei governativi. Molte fermate in pochi chilometri. Documenti, controlli, spiegazioni. Ma è appena passato l’ultimo checkpoint che comincia la disavventura di queste persone, uomini, donne e bambini che fino a poco più di un anno fa vivevano vite normali in normali città. Kostyantynivka dista appena 60 chilometri dallo stadio di Donetsk, dove solo tre anni fa si sono giocate le partite degli europei di calcio. È un’anonima cittadina del Donbass, abbastanza vicina alla guerra per sentire le esplosioni delle bombe e vedere il viavai di carri armati, abbastanza lontana per potersi definire un posto tranquillo sotto il controllo dell’esercito di Kiev. La sua piccola stazione ferroviaria, dove prima neanche fermavano gli intercity, è diventata il centro di smistamento di chi scappa da Donetsk. È da qui che ora si prendono i treni che non arrivano più nella grande città, un milione e mezzo di abitanti prima della guerra, circa la metà oggi.
Centinaia di persone ogni giorno affollano la biglietteria e la sala d’attesa. La destinazione, per chi ce li ha, è la casa di un parente o un amico disposto a dare ospitalità. Per tutti gli altri è un centro di registrazione del ministero delle Politiche sociali, la remota speranza di avere un alloggio, il limbo delle associazioni di volontari.
Finora meno di 40 mila persone hanno avuto una sistemazione dallo Stato. Il resto deve dire grazie alle numerose associazioni di volontari che si sono formate in questi mesi e che si stanno di fatto sostituendo alle istituzioni inadeguate
Secondo la legge speciale sugli sfollati, lo Stato deve fornire una sistemazione a tutti per i primi sei mesi, dando così la possibilità di cercare nel frattempo una casa. La carenza di alloggi anche collettivi – spesso ricavati in scuole o ospedali dismessi – rende impossibile far fronte alla richiesta. La realtà è che finora meno di 40 mila persone hanno avuto una sistemazione dallo Stato. Il resto deve dire grazie alle numerose associazioni di volontari che si sono formate in questi mesi e che si stanno di fatto sostituendo alle istituzioni inadeguate. Nonostante il loro aiuto, però, la ricerca della casa è spesso impossibile. Ogni rifugiato ha diritto a ricevere 440 gryvnia al mese, qualcosa come 18 euro. Impossibile trovare un affitto a questa cifra. In più, il sussidio è previsto solo per sei mesi, perché le autorità ucraine trattano quella dei sfollati come un’emergenza temporanea. La realtà è che per la maggioranza di loro è una condizione definitiva. Come se non bastasse, nelle città con il maggiore afflusso di sfollati come Kiev, i proprietari si rifiutano di dare loro alloggio perché temono di non essere mai pagati.
In generale, l’immagine degli sfollati, anche come dipinta dai media, sta sensibilmente cambiando in peggio. L’entusiasmo e l’accoglienza dei primi mesi sta lasciando spazio a un’indifferenza a tratti persino ostile, anche a causa delle difficili condizioni economiche con cui ogni ucraino ha a che fare. E comincia a essere sempre più comune sentire chi si lamenta dell’aumento di furti e reati dovuti alla loro presenza. È chiaro che quella dei sfollati sta diventando una prova per la società civile ucraina. Ma non va escluso che presto o tardi gli sfollati ucraini prendano la strada dell’Ue, come emigranti economici, se non come rifugiati.
[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]
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