Se siamo arrivati alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica appesi ai deliri senili di Silvio Berlusconi significa che il sistema politico italiano è rimasto ingessato, ibernato quasi, per oltre un quarto di secolo. La speranza che il Movimento 5 Stelle potesse demolire quel bipolarismo astioso, falso e violento che si è abbattuto sulla politica italiana nel 1994 è, purtroppo, svanita. Eppure il movimento di Grillo e Casaleggio ha fornito l’unico elemento nuovo del panorama politico nazionale. E forse per questo sta per essere espulso come un corpo estraneo. Ciò significa, tra l’altro, che chi non aveva le proprie radici nelle divisioni di classe e religiose, chi non traeva legittimità da quelle fratture storiche, non ha potuto attecchire nel sistema.

La divisione tra il fronte religioso e quello laico, fondante dello Stato unitario, benché sottotraccia, era ancora ben presente nella coscienza collettiva nel dopoguerra, tanto da emergere in occasione del referendum sul divorzio del 1974, lasciando basiti politici seriosi e intellettuali engagé delle pensose riviste marxisteggianti della nuova sinistra (che guardava alla Cina, tanto per capire quanto nuova fosse…). Questa divisione ha nutrito per decenni il confronto politico, a colpi di fioretto nei livelli alti della politica, ma con fendenti pesanti nell’opinione pubblica. E quando la secolarizzazione tambureggiante degli anni Ottanta-Novanta sembrava aver sterilizzato quel conflitto, è ritornata in campo la Chiesa a sostituire il suo veicolo laico – la Dc – oramai affondato, e a riproporre temi etico-morali al centro del dibattito politico, nonché a sponsorizzare chiunque, anche i più lontani spiritualmente da essa, come Berlusconi e il suo partito, si ponesse al suo fianco. La ripresa di una centralità politica su tematiche etico-morali, legate sia alla sfera della sessualità sia alla ricerca di frontiera (per esempio sulle staminali), ha rivitalizzato la frattura religiosa, tanto da sovrapporla di nuovo a quella destra-sinistra.L’ideologia del mercato ha messo all’angolo ogni visione alternativa. Welfare e intervento pubblico sono diventate parole impronunciabili, sommerse da lazzi e insulti per il loro passatismo

Anche il conflitto di classe è tornato a imporsi. Solo che si è esplicato con modalità del tutto inedite e impreviste. È stato il côté proprietario della frattura proprietari/proletari a rivitalizzare tale conflitto, lanciando una sfida contro la classe lavoratrice in senso lato (composta solo parzialmente dalle tute blu, ormai residuali, ma anche da tutte le occupazioni esecutive). L’ideologia del mercato, diventata koiné dominante, ha messo all’angolo ogni visione alternativa. Welfare e intervento pubblico sono diventate parole impronunciabili, sommerse da lazzi e insulti per il loro passatismo. Il mito del lavoro autonomo, dell’intrapresa, dello Stato minimo per consentire libero corso agli animal spirits capitalisti ha lasciato sul campo un vincitore: la destra nelle sue diverse versioni.

Il conflitto di classe è rimasto decisivo nel determinare gli schieramenti politici: l’unica differenza rispetto al passato è che prima l’attacco era portato dai rappresentanti delle classi sottoprivilegiate per ottenere benefit e riconoscimenti, mentre dagli ultimi decenni del Novecento sono i portatori degli interessi proprietari a essere sulla breccia. Tradotto nella nostra politica italica significa che la destra forzaleghista dei primi anni Duemila ha guidato l’offensiva contro i diritti e le condizioni di vita dei ceti sottoprivilegiati. Non per nulla l’unico Paese europeo nel quale i salari sono diminuiti negli ultimi trent’anni è l’Italia: il calo è stato del 3% in termini reali (dati Ocse). Un disastro. Però ovattato e negletto.

Per la sinistra era meglio flessibilizzare all’infinito il lavoro fino all’infausto Jobs Act, piuttosto che rivendicare l’importanza del miglioramento delle retribuzioni e delle condizioni del lavoro (dove i morti non accennano a diminuire, anzi). Di conseguenza, la classe operaia in senso lato ha abbandonato i suoi referenti storici. In parte, ma solo in piccola parte, è rifluita sulla destra nazional-populista perché ha saputo spostare il baricentro emozionale di questi ceti sulle questioni dell’identità più che della eguaglianza, identificando nell’immigrato il nuovo nemico di classe. Ma in gran parte si è allontanata dalla politica. È sorprendente come i lamenti per il calo di partecipazione elettorale non affrontino l’origine di questo fenomeno, e cioè il disincanto dell’elettorato; un elettorato che si è ritirato perché sfiduciato dalle magre ricette della sinistra. Questo abbandono del campo è stato riempito da un nuovo attore, ben più che dalle sirene nazional-populiste: il Movimento 5 Stelle. Non dimentichiamo che per due elezioni di fila è stato il più votato sul territorio nazionale, con il 25,6% nel 2013 e il 32,7% nel 2018. Sembra un secolo fa, invece riguarda il decennio appena trascorso.Mentre il conflitto bipolare continuava ad articolarsi sulle divisioni fondanti della politica novecentesca, seppure con interpreti e visioni così diversi da offuscare la limpidezza di quei conflitti, è irrotta una proposta politica inedita e trasversale

Mentre il conflitto bipolare continuava ad articolarsi sulle divisioni fondanti della politica novecentesca – classe e religione – seppure con interpreti e visioni così diversi da offuscare la limpidezza di quei conflitti, è irrotta una proposta politica inedita e trasversale. Con modalità e strumenti in linea con la società digitale e con una collocazione sull’asse destra-sinistra inizialmente ubiqua o addirittura fuori da questo schema per significare una estraneità assoluta al contesto dato. Con il passare del tempo, la trasversalità dei primi anni è stata sostituita da una inclinazione verso sinistra. Del resto, nel momento in cui il M5S eleva il Reddito di cittadinanza ad alfa e omega della sua politica, il suo appello si indirizza inevitabilmente verso i ceti sottoprivilegiati. Questa scelta ha però creato le premesse per le sue difficoltà.

Il proposito di «abolire la povertà», nonostante l’esperienza del governo giallo-verde, ha inserito la sua collocazione politica all’interno degli schemi storici della lotta politica, eliminando così quell’aura di terzietà/estraneità al conflitto destra-sinistra che lo aveva tanto favorito. Quando il M5S scende sulla terra e incrocia la realtà delle divisioni della politica italiana perde la sua originalità. Viene assimilato al «sistema». Se a questo aggiungiamo la povertà di una classe dirigente drammaticamente inadeguata, il compito «storico» del rinnovamento delle dinamiche fondanti della politica nazionale non poteva che fallire. Quelle componenti sociali popolari che da sinistra e in qualche misura anche da destra sono approdate dai pentastellati hanno trovato sì maggiore audience, e per questo si possono sentire più rappresentate da loro. Allo stesso tempo però si ritrovano in uno schema tradizionale perché anche il M5S è stato ricondotto alla dinamica bipolare e ai temi che la definiscono.

La speranza di una riconfigurazione del sistema partitico, con una ridefinizione di ruoli e di rapporti di forza, è ormai archiviata. Il M5S non è riuscito ad attivare una leva di trasformazione sufficientemente potente, nonostante la valanga di voti. L’impressione di questi giorni è di essere ritornati indietro nel tempo di un quarto di secolo, con un personaggio desueto come il leader di Forza Italia che ha occupato di nuovo la scena, tenendo tutti in ostaggio per mesi.