A oltre un mese dall’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina, molte parole sono state spese su come sarebbe stato possibile prevenirlo e quale sia la soluzione migliore per terminarlo. Prima del 24 febbraio 2022, molti esponenti di spicco, tra cui il presidente francese Macron e il segretario di Stato americano Blinken, si erano spesi a favore degli accordi di Minsk del 2015. Tuttavia, il richiamo a quel documento presenta non pochi problemi.

Si tratta di accordi nati per sedare il conflitto scoppiato tra il governo ucraino e i separatisti di etnia russa dell’area del Donbass (le cosiddette Repubbliche di Donetsk e Lugansk) nell’aprile del 2014

Innanzitutto, bisogna ricordare che si tratta di accordi nati per sedare il conflitto scoppiato tra il governo ucraino e i separatisti di etnia russa dell’area del Donbass (le cosiddette Repubbliche di Donetsk e Lugansk) nell’aprile del 2014. Gli scontri erano iniziati appena un mese dopo l’indipendenza e conseguente annessione alla Russia della Crimea. Gli accordi siglati a Minsk consistono sostanzialmente in due documenti. Il primo, stipulato nel settembre 2014, ha avuto vita breve a causa di violazioni da entrambe le parti e consisteva in 12 punti e di fatto stabiliva un cessate il fuoco tra ucraini e separatisti sostenuti militarmente dalla Russia. Il secondo invece era di ben più ampio respiro. All’atto della firma vi erano rappresentanti di Russia, Ucraina, Osce e regioni separatiste di Donetsk e Lugansk, che si accordarono su 13 punti nel febbraio 2015. Tra i temi più rilevanti, oltre al cessate il fuoco: l’inizio di un dialogo su una forma di autogoverno per le regioni di Donetsk e Lugansk e il riconoscimento dello status speciale da parte del Parlamento; il ripristino da parte dell’Ucraina del controllo del confine con la Russia; una riforma della Costituzione con l’inserimento del decentramento dei poteri a favore delle due regioni e nuove elezioni territoriali.

Cosa è successo dunque dopo la firma del secondo accordo? Buona parte delle clausole non sono state attuate. Durante gli 8 anni che hanno preceduto l’invasione del 24 febbraio 2022, come riferito dagli osservatori Osce, i combattimenti sono seguiti seppur a bassa intensità. Quanto alle riforme costituzionali, i vari governi ucraini non hanno apportato le modifiche pattuite.

Che cosa non ha funzionato, dunque? Innanzitutto, è possibile che questi accordi siano stati concepiti frettolosamente, con l’intento prioritario di fermare l’escalation militare (il secondo atto della negoziazione è durato appena sei giorni, dal 7 febbraio al 12 febbraio). La Russia era sì firmataria dell’accordo, ma il suo ruolo nel conflitto non era riconosciuto: le parole «Russia» o «Federazione Russa» non apparivano nel testo ufficiale, mentre il ruolo di Mosca nell’armare i ribelli separatisti e nell’inviare forze di terra per sostenere i combattimenti era stato ampiamente documentato dai governi occidentali e da numerose inchieste giornalistiche. Tuttavia, il Cremlino non si riconosceva come parte in causa nel conflitto, e dunque rifiutava di adempiere agli obblighi dell’accordo. Nonostante fosse firmataria, Mosca insisteva che spettasse al governo ucraino e ai leader separatisti dell’est risolvere lo stallo. Inoltre, l’accordo – sorprendentemente – non menzionava la questione dell’annessione della Crimea da parte della Russia.

Vi erano inoltre altre questioni non meno importanti. Da una parte, il linguaggio dell’accordo era vago – con la Russia e l’Ucraina che interpretavano la tabella di marcia in modo molto diverso l’una dall’altra. Infatti, non vi era alcuna indicazione sull’ordine in cui i 13 punti dovessero essere messi in pratica. Il governo russo, perciò, vedeva l’accordo come un obbligo per l’Ucraina di concedere alle autorità ribelli del Donbass un’autonomia completa e una rappresentanza nel governo centrale. Mosca, dunque, insisteva che si tenessero elezioni dapprima nelle regioni secessioniste, e poi nel resto dell’Ucraina. I funzionari di Kyiv d’altro canto – e logicamente – temevano che una situazione del genere potesse consolidare l’influenza di Mosca nella regione, minando la sovranità del Paese e ponendo fine alle sue aspirazioni di entrare nella Nato e nell’Unione europea. L’Ucraina, infatti, vedeva l’accordo come uno strumento per ristabilire il controllo sui territori ribelli, e solo successivamente avrebbe indetto nuove elezioni nel Donbass, ed eventualmente nel Paese intero. Qualsiasi mossa da parte di Kyiv per conferire uno status speciale alle regioni secessioniste avrebbe impressionato negativamente l’opinione pubblica interna, poiché sarebbe stata percepita come una capitolazione a vantaggio di Mosca. A dimostrazione di ciò, erano bastati i disordini di piazza nella capitale ucraina a seguito della proposta di modifica costituzionale presentata dal governo Poroshenko nel luglio 2015.

D’altronde tra Mosca e Kyiv vi erano divergenze anche sul contenuto delle modifiche costituzionali. Se l’Ucraina proponeva una riforma dello Stato in senso federale, il governo russo pretendeva che le repubbliche di Donetsk e Lugansk avessero, tra le altre cose, un proprio corpo di polizia e un sistema giudiziario separato.

Da qui emerge quella che forse è la ragione principale del fallimento degli accordi di Minsk. La Russia non riconosce nell’Ucraina uno Stato dotato di piena sovranità, secondo il modello tradizionale. Al contrario, come per tutti i Paesi nell’area post-sovietica, il governo di Putin ritiene di poter interferire negli affari interni dei singoli Stati in nome della tutela delle minoranze di etnia russa che vi risiedono. Questo perché Mosca ha sempre riconosciuto quello spazio come propria legittima sfera di influenza. Perciò, se i principi tradizionali prevedono il rispetto dei confini degli altri Stati e l’astensione dall’intervenire nei loro affari interni; il modello russo si rifà – in modo strumentale – al concetto di autodeterminazione dei popoli. Il richiamo è sì strumentale poiché il governo russo non lo ha mai applicato a i propri conflitti interni, come dimostra il caso della Cecenia, le cui aspirazioni separatiste furono combattute in due violentissime guerre. Ed è proprio grazie a questo secondo modello che il Cremlino aveva deciso di intervenire a sostegno delle Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk nel 2014: per proteggere gli ucraini di etnia Russia nel conflitto tra separatisti e governo centrale.

Perciò, più che risolutivi, gli accordi di Minsk rappresentano proprio la strada da non seguire per i negoziati futuri tra Russia e Ucraina. Per Putin gli accordi erano funzionali a mantenere un’influenza costante all’interno dell’Ucraina tramite due repubbliche autonome filorusse dotate di una stabile rappresentanza in parlamento. A complicare ulteriormente le cose poi, dal 2019 il Cremlino aveva iniziato a rilasciare passaporti russi a centinaia di migliaia di residenti del Donbass: una politica che mirava espressamente a stabilire un punto di appoggio russo permanente col fine di minare la reintegrazione sicura delle regioni indipendentiste di Donetsk e Lugansk. Pertanto, è lecito sospettare che l’obiettivo fosse creare una zona grigia – anche attraverso il conferimento strategico della cittadinanza – per destabilizzare l’Ucraina e attrarla nella sua sfera d’influenza, allontanandola dalla Nato e dall’Ue – una richiesta che la Russia riteneva imprescindibile già allora per disinnescare le tensioni.

La posta in gioco si è alzata. Se diamo per scontato il cessate il fuoco, adesso c’è da chiarire cosa voglia davvero la Russia oltre all’indipendenza di Donetsk e Lugansk

In conclusione, affinché si trovi una soluzione duratura al conflitto in atto, occorre innanzitutto che il nuovo documento di pace sia un trattato chiaro sul piano linguistico, dettagliato nei termini e soprattutto legalmente vincolante, senza lasciare spazio a interpretazioni equivoche; occorre insomma un’intesa riconosciuta da entrambe le parti che segni una «roadmap» ben precisa dove ogni punto sia consequenziale all’altro. Inoltre, la Russia dovrebbe assumersi le sue responsabilità all’interno del conflitto, riconoscendosi come attore sulla scena – e quindi con eventuali obblighi da rispettare a seguito di un accordo (come le riparazioni per i danni di guerra). Specialmente, dall’esito di questo negoziato dovrebbe emergere il definitivo riconoscimento russo della sovranità ucraina (anche in cambio di alcune cessioni territoriali, quali la Crimea), senza le richieste di riforme costituzionali che ne mettano a rischio la tenuta interna.

In ogni caso, una condizione necessaria sarebbe capire quale sia l’obiettivo del governo di Putin. In questo momento risulta difficile credere che si tratti solo dell’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk: la posta in gioco si è alzata. Se diamo per scontato il cessate il fuoco, adesso c’è da chiarire cosa voglia davvero la Russia oltre all’indipendenza delle due Repubbliche. In questo senso le ipotesi sono tante, e Mosca non sembra costante nelle sue richieste, che appaiono mutevoli e che la rendono un partner poco affidabile. A questo punto del conflitto, dunque, risulta insensato un richiamo ad accordi tanto limitati, vaghi e problematici come quelli di Minsk. Infine, bisognerebbe auspicare una soluzione multilaterale di largo respiro, con partner in grado di sedersi al tavolo negoziale con del «leverage power», e al momento gli indiziati maggiori non possono che essere Cina, Stati Uniti e Unione europea.