C’è una simmetria inevitabile tra il turnover nelle assemblee parlamentari e i sistemi elettorali che, nel furioso impeto trasformativo del legislatore italiano, hanno fatto registrare un cambiamento delle regole del gioco senza paragoni nelle democrazie occidentali. È una simmetria che reagisce alla meccanica elettorale destinata a tradurre il consenso in rappresentanza, avendo riguardo, in modo particolare, al rapporto tra candidato e corpo elettorale, se caratterizzato dal voto di preferenza plurimo, dal collegio uninominale o dalla lista bloccata. L’analisi ci condurrà a compiere scoperte in apparenza paradossali, come la presa d’atto che, laddove a selezionare gli ingressi nelle aule parlamentari era il voto di preferenza, il cambiamento della platea parlamentare si attestava entro il limite di un terzo ad ogni legislatura, mentre, da quando la scelta degli eletti viene rimessa nelle mani del capo di partito, in regime di lista bloccata, il rinnovamento della platea parlamentare raggiunge livelli altissimi, talvolta superiori al 70%.
L’ancien regime. Nella serie storica delle 18 consultazioni elettorali che vanno dal 1865, prime elezioni legislative dell’Italia unita, al 1919, prime elezioni con regola proporzionale e ultime prima del fascismo, la percentuale dei neo-eletti alla Camera dei deputati ha oscillato tra il 23% del 1900 e il 61% del 1919. Complessivamente, il lungo periodo considerato (con eccezione, naturalmente, del ventennio fascista) farà registrare un turnover medio di circa un terzo dei componenti l’assemblea legislativa, valore ricorrente anche nelle democrazie contemporanee, che riesce ad amalgamare le esigenze di rinnovamento con quelle di una utile continuità delle esperienze parlamentari.
La Prima Repubblica. L’elevato tasso di rielezione riscontrato nella serie storica considerata, racconta di una professionalizzazione non troppo dissimile da quella che si incontrerà nel Parlamento repubblicano dal 1948. Infatti nella “Prima Repubblica” si assiste a una strutturazione della forma-partito e a una stabilizzazione delle élite alla guida dei partiti, con l’effetto di contenere le percentuali di “non ri-candidature” entro il 20%. Dal 1948 ( con la legge n. 6 del 20 gennaio 1948) venne pertanto adottato alla Camera dei deputati un proporzionale con voto di preferenza plurimo. Il cursus honorum dei candidati e il loro stabile insediamento nel territorio facevano sì che ogni eletto si configurasse come portatore di un consenso personale che concorreva a costituire il patrimonio elettorale della lista. La selezione delle candidature, pertanto, tendeva ad assecondare la professionalizzazione politica a vantaggio del consenso raccolto dai candidati, accogliendo, così, uno schema che procedeva necessariamente “dal basso verso l’alto” e che non tollerava imposizioni autoritarie da parte degli organi centrali di partito a motivo del fortissimo “intuitus personae” di cui ogni eletto era portatore. Tutta la Prima Repubblica, fino all’avvento dei sistemi semimaggioritari nella metà degli anni Novanta, era informata a questa modalità necessariamente rispettosa della “popolarità” delle candidature. Il turnover della lunga stagione del proporzionale non superò mai la soglia del 40%, facendo registrare una media della serie storica considerata attestata intorno al 33%.
La Seconda Repubblica: gli anni del Mattarellum. L’avvento del sistema semimaggioritario, il cosiddetto Mattarellum, segnò una cesura epocale attraverso il meccanismo peculiare della legge elettorale che, dando efficacia all’esito del referendum antiproporzionalista del 1993, promuoveva una formula prevalentemente maggioritaria (75%) pur conservando un residuo proporzionale (25%) attraverso l’infausta novazione rappresentata dalla lista bloccata, introdotta con quella legge e mai più eliminata. Il Mattarellum restò in vigore per tre legislature, dal 1994 al 2001, e fu soppiantato dalla legge Calderoli del 2005, facendo registrare un altissimo tasso di rinnovamento nelle aule parlamentari a partire dalla sua prima applicazione (circa il 72% varcava le soglie delle Camere per la prima volta). Le ragioni di un turnover così alto erano nel contesto storico in cui il forte sentimento popolare contro i partiti tradizionali implicati nello scandalo di Tangentopoli era collegato all’effetto maggioritario e premiava un raggruppamento politico nuovo dal nome ammiccante, Forza Italia, fondato da Silvio Berlusconi. Il tycoon televisivo utilizzò l’efficace slogan antipolitico per raccogliere un consenso caratterizzato soprattutto come condanna della classe politica previgente. Ma da quel momento il turnover parlamentare non sarebbe più tornato ai valori della “Prima Repubblica”: le elezioni politiche del 1996 e le successive del 2001, infatti, pur mantenendo valori di cambiamento inferiori al picco del 1994, tuttavia continuarono a manifestare un tasso di rinnovamento più alto della media storica, attestandosi sopra al 43%.
Il Mattarellum restò in vigore dal 1994 al 2001, facendo registrare, in un contesto storico dominato dallo scandalo di Tangentopoli, un altissimo tasso di rinnovamento nelle aule parlamentari a partire dalla sua prima applicazione
Curiosamente non si registrò nessun processo di fidelizzazione dell’eletto al suo collegio elettorale, lasciando, al contrario, intravvedere un cambiamento intenso delle candidature territoriali, che arrivò a proporre un nuovo candidato a ogni nuovo turno, rimuovendo, così, anche gli uscenti. D’altro canto, secondo alcune ricerche il peso dell’intuitus personae nel collegio elettorale ha oscillato, vigente il cosiddetto Mattarellum, tra lo 0,3 e lo 0,8% del numero complessivo degli elettori, valori del tutto marginali. Le leggi elettorali seguirono il processo cesaristico che caratterizzò le formazioni politiche dopo la fine dei partiti di massa e il nuovo leader, in piena consapevolezza che il voto dell’elettore fosse destinato a chi incarnava il “brand” politico sul piano nazionale, dispose a piacimento dei collegi elettorali uninominali così come delle liste bloccate. L’eletto non fu più portatore di un consenso personale, ma solo oggetto di una cooptazione da parte dei vertici del partito.
L’avvento della “Terza Repubblica”: la cooptazione come sistema. Il compulsivo turnover delle leggi elettorali che ha caratterizzato il periodo dal 2005 al 2017, ha visto l’alternarsi di tre normative diverse: la n. 270 del 21 dicembre 2005, battezzata dai media “Porcellum”, la l. 6 maggio 2015, n. 52, nota come Italicum, legge che non trovò mai un’applicazione perché venne dichiarata in alcune sue parti illegittima dalla Corte Costituzionale, e la legge attualmente in vigore, l. 3 novembre 2017, n. 165, il cosiddetto Rosatellum. Si è trattato di tre variazioni sul tema delle liste bloccate, che hanno continuato a rappresentare una costante nell’impianto elettorale, con la sopravvivenza nel Rosatellum dei collegi uninominali. L’arco temporale considerato ha incrociato un’ulteriore deterioramento della forma-partito, e, insieme, l’impatto con i nuovi movimenti populisti, mossi da istanze anti-politiche. In questo contesto il turnover parlamentare si è manifestato significativamente alto, con la seguente sequenza: il 63% registrato nel 2006, il 65% del 2008, il 64% del 2013 e il 67% nel 2018. Il voto del 25 settembre 2022 ha rappresentato un ulteriore “salto” nella tormentata storia elettorale dell’ultimo trentennio, perché il Parlamento ridotto del 37% venne eletto con le aporie di una legge che continuava a negare all’elettore il diritto di scelta persino del candidato nel collegio uninominale, legandone indissolubilmente le sorti al destino della lista bloccata. Ebbene questo controllo così penetrante da parte dei vertici di partito, incrociato con l’uso sapiente delle pluricandidature nelle liste della quota proporzionale, ha prodotto un brusco freno all’usuale turnover, attestando la percentuale dei nuovi ingressi intorno al 41%, valore di 20-25 punti inferiore a quelli registrati negli ultimi 29 anni. Interessante registrare l’accuratezza con cui la selezione delle candidature è stata effettuata dai partiti con riferimento al Senato, assemblea che i sondaggi elettorali valutavano “in bilico” dal punto di vista delle maggioranze di governo, includendovi i leader dei partiti, nella previsione che, in uno spazio numericamente ristretto, si sarebbero giocate le carte delle maggioranze di governo.
Un primo necessario intervento sarebbe quello di stabilire maggioranze parlamentari qualificate per procedere all’approvazione delle leggi elettorali, al fine di evitare il cambiamento delle regole secondo le convenienze delle maggioranze di governo
L’ordinamento elettorale italiano, dunque, si presenta come un cantiere perennemente aperto e perciò come un motivo d’instabilità politica. Un primo necessario intervento, allora, sarebbe quello di stabilire maggioranze parlamentari qualificate per procedere all’approvazione delle leggi elettorali, al fine di evitare il cambiamento delle regole secondo le convenienze delle maggioranze di governo. C’è poi l’aspetto che riguarda il sistema elettorale in sé, che sottrae al cittadino il diritto di scegliersi la rappresentanza, consegnando il potere al capo di partito. Si tratta di una forzatura che, oltre a porre dubbi di costituzionalità, concorre ad allontanare una parte importante di elettori dalle urne, come ha dimostrato il livello di astensionismo dello scorso 25 settembre, il più alto nella storia repubblicana. L’altro effetto delle liste è l’alto tasso di turnover parlamentare che non giova certamente al funzionamento della macchina legislativa. Occorrebbe, pertanto, intervenire per riformare la legge elettorale vigente optando per un sistema a base proporzionale, seppur corretto con soglie di sbarramento appropriate o con premio di maggioranza, per incentivare le alleanze tra forze ideologicamente compatibili.
La scelta del proporzionale avrebbe infine anche il merito di avviare un minimo di convergenza in un ordinamento elettorale italiano che si presenta con caratteristiche duali: da un lato i Comuni, le Regioni, la rappresentanza italiana al Parlamento europeo, operano in un ambiente prevalentemente proporzionale, dall’altro, il livello nazionale continua a contenere il 37% di maggioritario. L’aspetto più paradossale è rappresentato dalla presenza del voto di preferenza a tutti i livelli elettorali tranne che per la Camera e il Senato. Questa determinazione a escludere il voto di preferenza dal Parlamento nazionale ha inciso fortemente sulla formazione della rappresentanza, bruciandone le radici territoriali, esaltando il metodo della cooptazione da parte dei capi e infrangendo il principio di autonomia del parlamentare, in contrasto con l’art. 67 della Costituzione. La restituzione dello scettro della rappresentanza al legittimo proprietario, che è e resta il corpo elettorale, pertanto, non potrebbe che far bene all’ordinamento costituzionale e anche alla stabilità delle assemblee parlamentari.
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