Questo articolo fa parte dello speciale Vacanze italiane
Di viaggi e di turismo si discute molto e da tempo, ma il dibattito fatica a uscire da una impasse in cui si scontrano le posizioni antitetiche di chi vorrebbe lo sviluppo turistico ad ogni costo e di chi invece lo condanna in ogni suo aspetto. Per un periodo di tempo relativamente lungo l’economia legata a questa industria è stata descritta come tendenzialmente positiva, amica dell’ambiente e generatrice di posti di lavoro (e dunque di reddito), oltre che di profitti per l’impresa. Solo negli ultimi decenni è aumentata la consapevolezza sui limiti e le esternalità negative connessi, al punto che oggi la maggior parte delle riflessioni e degli studi si concentra sulla questione della sostenibilità. Un’ampia letteratura critica si è fatta spazio evidenziando l’impatto ecologico tutt’altro che trascurabile, la presenza maggioritaria di forme di lavoro precario, povero e talvolta completamente irregolare.
Tuttavia, probabilmente anche i critici più intransigenti si concedono il tempo di una vacanza. Perché dunque, pur riconoscendo l’impatto negativo che l’attuale modello di sviluppo turistico ha sui territori e le persone, siamo portati ad avere la voglia, se non proprio il bisogno, di partire per evadere dalla routine? In parte credo che questo atteggiamento possa essere spiegato facendo riferimento a una dimensione rigenerativa-curativa del turismo in una società che produce stress e stanchezza oltre che beni e servizi. Ma, oltre a ciò, occorre tener presente il fatto che l’industria turistica cattura una “carica sovversiva” come sosteneva Rodolphe Christin nel saggio Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera, 2019). Il viaggio (o il turismo, i termini possono e anzi devono essere usati come sinonimi a meno di non voler scadere in letture classiste ed elitarie) rimanda a un immaginario di liberazione, che l’industria turistica sussume e monetizza. La voglia di viaggiare e di essere turisti non può essere condannata, perché legata a doppio filo con la capacità di immaginare un tempo liberato dallo sfruttamento del lavoro in cui coltivare i propri interessi e godere del piacere del riposo e della scoperta di nuovi territori, ambienti e culture. Non possiamo a mio avviso dirci contro il turismo, dobbiamo semmai pensare a un altro modello di sviluppo turistico.
La voglia di viaggiare e di essere turisti non può essere condannata, perché legata a doppio filo con la capacità di immaginare un tempo liberato dallo sfruttamento del lavoro
Se dunque non si intende rinunciare a questa possibilità, come è possibile riarticolare la dimensione del viaggio in chiave sostenibile, in un mondo che sembra dirigersi in maniera ostinata verso il collasso ecologico? Come spesso accade quando si parla di crisi ambientale e di sostenibilità, alcune letture propendono per individuare nella correzione dei comportamenti individuali una chiave di volta possibile. Oltre a essere di difficile realizzazione, questo piano potrebbe non essere risolutivo sul lungo periodo, a meno che non si vogliano imporre in maniera coattiva comportamenti “eticamente responsabili” a miliardi di persone. Occorre guardare invece al lato dell’offerta più che a quello della domanda. Destagionalizzazione e distribuzione su nuovi territori paiono essere le due grandi scommesse su cui si concentra il dibattito sulla pianificazione turistica per rispondere ai problemi legati al cosiddetto overtourism nelle mete più gettonate come le città d’arte e le località marittime.
Negli ultimi anni nel nostro Paese, che all’economia turistica è particolarmente legato e che probabilmente lo sarà sempre di più in futuro, si è aperto un dibattito importante sulla diversificazione degli itinerari turistici e una soluzione possibile è stata individuata nella riscoperta dei borghi dei comuni delle aree interne. Tuttavia, in assenza di profonde modificazioni strutturali dell’economia e della società in generale, questa tipologia di turismo descritta come sostenibile, ecologica o green rischia di generare problemi e di tradursi semplicemente nella colonizzazione turistica di nuove aree senza peraltro produrre miglioramenti concreti sul piano della vivibilità di questi territori, dove il già debole tessuto economico locale potrebbe essere messo ulteriormente in crisi dall’apertura di attività e servizi rivolti esclusivamente ai visitatori.
Per poter pensare uno sviluppo turistico alternativo è necessario ragionare anche sull’organizzazione dei sistemi produttivi e soprattutto sul tempo che siamo costretti a dedicare al lavoro. Il cosiddetto tempo libero entro cui il turismo si sviluppa esiste perché esiste un tempo di lavoro e qualsiasi ragionamento dovrebbe tenere conto di ciò. Si è iniziato a parlare di turismo vero e proprio solo quando l’istituzione del diritto alle ferie ha reso possibile il viaggio per un’ampia fetta di popolazione e le modalità del viaggio sono andate modificandosi man mano che mutavano anche le modalità di impiego (dalla società fordista salariale a quella post-fordista, dal turismo di massa ai turismi). In una società in cui 5 se non 6 giorni alla settimana sono impegnati dalla routine lavorativa e le ferie si concentrano quasi esclusivamente nel periodo estivo, come è possibile immaginare una destagionalizzazione del turismo che non sia appannaggio soltanto dei ceti più abbienti? Se alla maggior parte della popolazione è concesso di viaggiare solamente la domenica o nelle settimane di agosto, come pretendere che le folle non si riversino esclusivamente nei litorali o nelle città più facilmente raggiungibili per un breve fine settimana?
Per pensare un nuovo tipo di turismo, magari basato anche sulla prossimità territoriale e la riscoperta di un viaggiare lento a misura d’uomo, occorre in primis pensare a una riduzione dei tempi di lavoro. Le sperimentazioni legate all’introduzione di un reddito universale incondizionato come quelle che si sono date in Catalogna e Finlandia negli ultimi anni o quelle relative alla cosiddetta settimana corta (di 4 giorni lavorativi) introdotte in Spagna e nel Regno Unito vanno in questa direzione e dovrebbero a mio avviso esser guardate con attenzione anche da chi si occupa di panificazione e sviluppo turistico.
L’eventuale realizzazione in un futuro (che temo non prossimo) di questo radicale cambiamento sociale ritengo sia una condizione necessaria per ripensare il turismo, ma non sufficiente. Se infatti il tempo che non viene assorbito dal lavoro continua a esser concepito come tempo da dedicare soprattutto alle pratiche di consumo ed il turismo continua ad esser considerato come tale, difficilmente potremo ripensarlo in quanto fenomeno non dissipativo ed estrattivo. La scommessa in questo senso diviene quella di concepire il viaggio non soltanto come un momento di evasione, ma come un tempo della cura e della scoperta di sé e del territorio. Può essere l’occasione per creare relazioni nuove con soggetti umani e più che umani quanto mai oggi necessarie per far fronte alla crisi ecologica globale. Il turismo potrebbe esser inteso come una pratica di cura (in senso lato) individuale e comunitaria?
La scommessa diviene quella di concepire il viaggio non soltanto come un momento di evasione, ma come un tempo della cura e della scoperta di sé e del territorio
Lino Gobbi è ad oggi presidente dell’ente che gestisce il Parco Sasso Simone e Simoncello, un'area naturale estesa su di una superficie di oltre 50 km quadrati che interessa 6 comuni tra la provincia di Rimini e quella di Pesaro e Urbino. Nelle sue parole e nel racconto dei progetti che stanno implementando nell’area del parco ho trovato una risposta e un esempio concreto di un’alternativa possibile. Prima di entrare nel merito degli specifici progetti Gobbi ci ha tenuto a dire che
“Il mio pensiero non arriva dal nulla. Quelli che oggi chiamiamo luoghi di villeggiatura nascono spesso come luoghi terapeutici, basti pensare al ruolo che hanno avuto le colonie, create purtroppo dal regime fascista come luoghi di cura per la gioventù, rispetto all’esplosione del turismo in Romagna. Oppure alla stazione turistica di Cortina che prima di essere tale era stata un luogo preposto per la cura della tubercolosi. C’è una linearità, un legame stretto tra cura e turismo che può esser ricostruita anche a livello geografico”.
A suo avviso oggi questa riscoperta della dimensione curativa del turismo è quanto mai necessaria data l’altissima incidenza di gravi malattie come tumori e dei disturbi della psiche con cui sempre più persone sono costrette a fare i conti. L’offerta del parco, che si compone di sentieri, strutture ricettive, servizi di ristorazione, ma anche centri di ricerca, gruppi sportivi e festival culturali, non si rivolge esclusivamente a una popolazione di cosiddetti malati certificati, ma come giustamente mi fa notare il presidente del parco “la disabilità fa parte del ciclo della vita: da bambini non siamo pienamente abili e allo stesso modo questo avviene da anziani. Inoltre, un percorso che può esser fruito da persone con patologie è necessariamente aperto a tutti, mentre non si può dire il contrario”. I tanti sentieri che attraversano il parco sono dunque pensati per rispondere anche alle specifiche esigenze di diabetici o non vedenti per esempio, ma anche da gruppi di sportivi che li attraversano in bici o a piedi. Sono mappati e monitorati attraverso un’app messa a disposizione del parco e pensati in sinergia con professionisti del settore medico ed enti istituzionali come l’Università di Bologna e di Ancona.
Tutto questo prende il nome di montagna-terapia e l’obiettivo dell’ente è oggi quello di farsi riconoscere e certificare come progetto funzionale alla cura degli individui. Difficile distinguere chi viene per curarsi e chi ricerca semplicemente un po’ di frescura e contatto con la natura, le due cose possono talvolta sovrapporsi. “C’è una dimensione di cura diciamo generale che va al di là della terapia, è preventiva”. Vi è poi la presenza di una comunità che vive in maniera stanziale e continuativa il territorio e che con tutto questo ha imparato non solo a convivere, ma a trarne un beneficio. Una comunità fatta per esempio di contadini ed allevatori, ma anche da giovani studiosi e artisti.
Ad esperienze come queste occorre oggi guardare per immaginare un modo diverso di vivere il tempo liberato dal lavoro, ma occorre in contemporanea richiedere che questo si espanda perché ad oggi è evidentemente insufficiente per la stragrande maggioranza della popolazione, mentre le tonnellate di rifiuti e materiali sprecati così come l’intossicante presenza di cemento e costruzioni abbandonate sono lì a testimoniarci il danno che la follia del mantra produttivista dello sviluppo ad ogni costo ha creato. Per ripensare il turismo oggi dobbiamo necessariamente mettere in discussione il rapporto tra produzione e riproduzione in un mondo che non ha più bisogno di crescere, ma semmai di redistribuire, curare, riparare.
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