Ieri su Twitter risuonava un ironico commento volto a molcere i cuori dopo la vittoria di Trump alle elezioni americane: i democratici avrebbero dovuto candidare Claire Underwood, non Hillary Clinton. Claire Underwood, la cinica, fredda, durissima interprete femminile di House of Cards, la nota serie televisiva sulla Casa Bianca e i suoi tremendi intrighi: una condanna spietata dell’establishment, noi diremmo della casta politica americana. Sempre ieri «Breitbart News», un giornale online conservatore che ha vivacemente sostenuto Trump, buttava nella schermata d’apertura un’enorme frase in rosso: «Choc - fantastico! Un movimento di americani comuni stordisce l’élite globale» e subito sotto: «Un outsider supera ostacoli incredibili per sconfiggere l’establishment e la Clinton». 

I tweet richiamano Claire Underwood perché è una cinica spietata e vincente, mentre Hillary lo è pure, ma perdente. Come battuta funziona e, senza arrivare alle vette horror di House of Cards, possiamo credere contenga parecchia verità; ma non la si può tenere separata da «Breitbart» e dai suoi termini chiave: americani comuni, élite globale, outsider, establishment, perché queste sono parole d’ordine, o cri de cœur, di chi ha votato Trump.

A occhi italiani sembra paradossale che un uomo d’affari miliardario possa ergersi a espressione e voce dell’uomo comune, degli outsider, contro l’establishment e le élite globali. Un businessman, per di più, dagli affari anche non molto limpidi: basti pensare alla Trump University, sotto processo perché, pur non riconosciuta legalmente come università, ha rilasciato a carissimo prezzo diplomi senza alcun valore. A occhi italiani, però. E i nostri occhi, per quanto ci siano cari, non sono quelli americani o di altri Paesi, col che intendo che prima di parlare di politica occorre entrare nella cultura e nella storia degli altri. Appena lo si fa, se si prova a farlo sul serio, si vede che quegli occhi assomigliano più a quelli di una mosca che di un bipede umano. Sono compositi, migliaia di occhi, e ciascuno in una posizione fissa, inamovibile. Capita allora che l’America vista da lontano appaia come un unico, spaventoso Leviatano, oppure come un maestoso San Michele arcangelo che scende dal cielo e così appare anche a tanti che vanno a visitarne le splendide università, i favolosi centri di ricerca, gli shopping mall iperkitsch, ma da sogno, o i casinò scintillanti. L’America dallo spaventoso hard power e dall’altrettanto incredibile soft power, il Giano bifronte mito della nostra modernità. Tutto vero; ma se non vogliamo che un Ulisse ci tolga l’unico occhio che usiamo occorre guardare alla mosca e a qualcuno dei suoi mille, immobili occhi.  

Ce ne mostra parecchi Joe Bageant in un libro del 2007 dal titolo che tradotto letteralmente suona: A caccia di cervi con Gesù, ritenuto incomprensibile dall’editore italiano che lo ha fatto diventare La Bibbia e il fucile (Mondadori, 2010), ma di cervi e di Gesù si parla. Il libro tratta del ritorno dell’autore nel suo luogo di nascita, una cittadina del nord della Virginia, nelle montagne, dove l’outsourcing ha fatto sparire le industrie che facevano vivere, sia pur modestamente, la popolazione. L’autore nel sottotitolo parla di una cronaca della guerra di classe in America, che in italiano è stato fatto sparire anche se è il fulcro attorno a cui muove il libro. È infatti una guerra di classe ormai vinta dal capitalismo internazionale quella che ha portato la popolazione di Winchester - quasi tutta bianca - sull’orlo del baratro, della povertà, ma soprattutto della spoliazione, della marginalità, della perdita di ogni speranza e di ogni senso di valere qualcosa. Eppure quella gente quasi misera resta fiera, aggrappata alla propria dignità di americani in grado di farcela da soli, senza diventare clients – clientes nel senso latino del termine – di nessuno e tanto meno del governo: ovvero, dipendenti.

E come può un americano dipendere? La fierezza di essere cittadini di un Paese libero - il vero e solo Paese libero - è innanzi tutto fierezza dell’essere autonomi pur nelle ristrettezze, nelle hardships. Lo si fa con una fierezza aspra appoggiandosi a due valori assoluti e sufficienti, le armi e Gesù.

Non c’è ribellione sociale. È vero che la gente si sente presa in una pania da cui non può uscire; ma non cerca la ribellione sociale perché quelle due garanzie le danno dignità. Il fucile è l’orgoglio di sentirsi uomini interi, che non cercano la protezione di nessuno, ed è un rapporto profondo con i boschi e col cervo di cui si va a caccia. Gesù per gli evangelici è un amico con cui si sta mano nella mano, con cui si chiacchiera amabilmente al di là dei fronzoli delle tante teologie, che siede a tavola con te e con te viene a farsi una birra. È esperienza di tutti i giorni, questa, in America, ben al di là della Virginia.

A New York anni fa ero in un alberghetto vicino al Lincoln Tunnel. Subito fuori, di fianco alla vetrina vuota di un negozio chiuso, la sera vedevo un gruppo di ragazzotti un po’ biechi, infagottati in jeans a cacarella, berrettucci da baseball alla rovescia. Chiesi al portiere. Mi sorrise che erano lì ad aspettare Michael, il pastore della store church, della chiesa nel negozio vuoto. Michael di mestiere faceva il meccanico e la sera veniva a parlare di Cristo ai bulletti incerti del quartiere: povero in canna, non aveva nulla da dar loro; ma offriva la mano di Gesù.

La mia non è scienza; ma per cercare Trump credo si debbano scavare queste cose. Trump ha capito tutto, là dove tutti gli altri non hanno capito niente. Ha detto e ripetuto che la sua è una rivoluzione della gente comune. Lo hanno, lo abbiamo guardato male; ma aveva ragione. La gente di Winchester, gli evangelici delle periferie o delle enclave abbandonate delle metropoli hanno fatto (anche se ho detto sopra che non la facevano) la loro rivoluzione. Non hanno fatto la rivoluzione come la intendiamo noi, italiani dalla testa ottocentesca, incapaci nel Duemila di riconoscere in Marx il Budda e, come il buddismo insegna, di ucciderlo per procedere avanti. Invece di capirlo e ucciderlo ce lo teniamo come una sedia spagliata da commedia di Eduardo e corriamo su e giù per il palcoscenico a cercare la rivoluzione, quella vera.

Gli americani del 2016 la rivoluzione l’hanno fatta; ma quella loro, della loro cultura. Trump ha capito che stava arrivando e che il Partito repubblicano, con le sue ideologie neoliberiste e globaliste, non li rappresentava più; così come certo non li rappresentava il progressismo agnostico e innaturale dei democratici, gli odiatori di Gesù. Nemici fra loro, repubblicani e democratici erano tutti nemici del common man, l’uomo della strada, nel nome del quale si era compiuta la rivoluzione democratica in America addirittura nella prima metà dell’Ottocento. Il common man che è il popolo della middle class, l’altra profezia americana di una società in cui si lavora duramente, si è autonomi e si vive tranquillamente la propria vita in famiglie felici, quasi tutti. Fuori dalla classe media restano coloro che non meritano di essere americani, chi non vuol lavorare abbastanza, chi rovina la famiglia, i neri soprattutto: gli undeserving poors, i poveri non meritevoli, e con loro i grandi finanzieri e industriali globali, non i businessman che si arricchiscono, ma danno lavoro e dignità alla gente - come Trump.

Trump ha fatto la mossa del cavallo. Ha dato il via a un’opa ostile contro il suo partito già tarlato e ha vinto, ha fatto un’opa ostile contro i liberal e ha vinto. Dietro di lui una coalizione che sarà rissosa e che verrà scalata dai miliardari iperconservatori che finanziano i movimenti popolari come il Tea Party; ma i voti ci sono. Tanti vengono da dove ho detto, da questa immarcescibile pancia dell’America di cui i democratici si sono poco curati e che Hillary si è lasciata scappare di ritenere irrecuperabile, commettendo uno dei più tremendi errori possibili. Come ho scritto nell’ultimo numero de «il Mulino», gli Stati Uniti sono in preda a una delle più gravi crisi della loro storia, una crisi che a partire dalle rivolte degli anni Sessanta ha spaccato sempre di più l’America senza che la classe politica o quella intellettuale fossero capaci di trovare una soluzione.

Per quanto possa apparire paradossale l’America si è spaccata mentre attraversava alcuni dei suoi decenni più felici, in termini internazionali con la vittoria nella Guerra fredda, in termini economici e scientifici con la rivoluzione digitale e il lancio della globalizzazione.

Il 2016 è stato l’anno del giudizio e Trump se lo intesta come un Messia. Al di là di ogni, pur necessaria, analisi specifica e dettagliata, la ragione profonda di tutto ciò è che metà più qualcosa degli americani si sente, come hanno già scritto molti commentatori d’oltreatlantico, homeless in America, non più a casa propria in America. Si sentono disprezzati e messi da parte dalle élite che agiscono al di sopra delle loro teste approfittando delle proprie superiori conoscenze e soprattutto dai liberal che vorrebbero cancellarli.

C’è del vero. I liberal che hanno fatto dell’apertura, dell’accettazione dell’altro il fulcro della loro ideologia, non si aprono e non vogliono misurarsi con l’altro dell’America profonda, al quale fanno una guerra sorda e senza tregua.

Come non credere negli ideali liberal? Ma anche: perché restar sordi a chi è diverso, laggiù nell’America profonda? Spero che i progressisti americani, i miei amici dell’accademia, come tanti altri, si accorgano di questa loro contraddizione e cessino di emarginare il «nemico della pancia profonda» per tentare una nuova via in cui gli ideali non siano ideologia. Aggiungo che il problema non credo sia solo americano e che anche qui da noi, in condizioni molto diverse, vi siano problemi simili - con simili pericoli.