L’emergenza americana sul confine Sud col Messico significa – a detta sia dei sostenitori sia dei critici – anzitutto un atto cardine della campagna presidenziale del 2020, che resterà all’ordine del giorno fino ad allora nei suoi aspetti politici, istituzionali e legali. In queste tre aree Trump e il suo team hanno calcolato risorse e prezzi di un’iniziativa eclatante, identificante e rischiosa. I suoi sostenitori, a cominciare dalla potente rete mediatica Fox News, plaudono all’iniziativa come mossa elettorale, lotta alla droga e al crimine, ostacolo alla concorrenza dei nuovi immigrati ai posti di lavoro dei “veri americani”, nuova e muscolare dimostrazione della coerenza tra l’intuizione politica presidenziale e il volere dell’American people. Impostando una campagna elettorale contrastiva, Trump sceglie di apparire ancora una volta come un guerriero dello scontro politico in confronto alle esigenze concilianti e bipartisan del Congresso diviso. È consapevole che la natura controversa dell’emergenza, la cui giustificazione accentua pregiudizi etnici e razziali, gli può costare favori tra i votanti indipendenti e i repubblicani moderati (al momento attuale due americani su tre la disapprovano), ma è convinto che, in un sistema elettorale a bassa partecipazione, un blocco compatto ed entusiasta di destra trumpiana, che va disciplinatamente alle urne ed è ben distribuito in Stati importanti, potrebbe regalargli la rielezione. Il suo autorevole consigliere conservatore Stephen Miller sostiene che per settembre 2020, due mesi prima delle elezioni, l’amministrazione avrà completato 200 chilometri di muro.
Sul piano istituzionale e parlamentare, l’emergenza potrebbe costargli il sostegno omogeneo del Partito repubblicano, dove nuove voci di dissenso vanno emergendo anche tra i suoi fedeli trumpiani. Un esempio per tutti: il potente senatore della Florida Marco Rubio, cubano-americano di uno Stato tra i dieci più popolosi d’America e pieno di latinos, è contrario al presentare questi immigrati solo come criminali, drogati e pushers. Le sue riserve fanno eco a quelle di altri repubblicani: violazione della separazione costituzionale dei poteri; svuotamento del potere di spesa del Congresso; invenzione di un’emergenza inesistente; creazione di un pericoloso precedente che un futuro presidente democratico potrebbe usare per temi invisi ai repubblicani, come il riscaldamento globale o la libera vendita delle armi – come ha ipotizzato Nancy Pelosi, leader della maggioranza democratica alla Camera.
Il Congresso ha il diritto di bloccare la dichiarazione d’emergenza del presidente, e i democratici stanno per approvare una risoluzione in tal senso che il Senato è obbligato a mettere all’ordine del giorno. La fronda repubblicana potrebbe far approvare la risoluzione anche in questa sede, come Trump ritiene del tutto possibile. A quel punto egli eserciterebbe il suo diritto di veto, sicuro che la maggioranza congressuale bipartitica non raggiungerebbe i due terzi dei voti necessari a vanificare il veto presidenziale.
La battaglia legale si annuncia complicata e accesa. Sedici Stati guidati dalla California stanno facendo appello ai tribunali per bloccare la dichiarazione come incostituzionale, seguiti da una pletora di associazioni pubbliche e soggetti privati. La frase di Trump nel discorso del 15 febbraio scorso, “non avevo bisogno di farlo (dichiarare l’emergenza ndr.)”, vuol dire, secondo i giuristi ricorrenti, che l’emergenza non c’è: una convinzione molto diffusa, dato il declino ormai ventennale dei clandestini che entrano dal sud, mentre la droga passa soprattutto da porti e aeroporti. Ma il punto legale, anche secondo giuristi critici di Trump come l’autorevole Cass Sunstein, docente ad Harvard e già collaboratore di Obama, è il seguente: vorranno i tribunali pronunciarsi sulla realtà fattuale di un’emergenza dichiarata tale dal presidente? Il National emergency act del 1976 non specifica i requisiti di uno stato di necessità nazionale. Da allora sono state decretate ben 59 emergenze, alcune su stati di necessità discutibili. Obama ha dichiarato l’emergenza di un’epidemia influenzale. È possibile che, di fronte all’ampia delega di potere al presidente data dalla legge, i giudici non vogliano mettere in discussione l’effettività dello stato di necessità. Semmai il lato costituzionalmente debole della dichiarazione di emergenza sta nell’aggiramento del potere congressuale di spesa. È lampante che Trump abbia fatto questo passo per recuperare, soprattutto dal bilancio del Pentagono, i soldi che il Congresso bipartisan gli ha dato solo nella limitata misura di 1,4 miliardi. Nessuna delle 59 emergenze precedenti ha cercato di ottenere fondi che il Congresso non aveva autorizzato.
Questo sarà un fuoco centrale della battaglia legale. La legislazione cui la legge del 1976 fa riferimento rinvia a una qualche forma di mobilitazione militare d’emergenza, non prevista in un’operazione di regolazione dell’immigrazione - anche se Trump prova a mandare dimostrativamente soldati al confine - e autorizza fondi d’emergenza per “costruzioni militari” a sostegno di quell’operazione. Un muro confinario non rientra certo in quella definizione, per cui l’appropriazione di una somma di circa 8 miliardi di dollari risulta un abuso del presidente in materia di potere di spesa. Trump ha detto chiaro e tondo che si aspetta sentenze negative dai tribunali di merito, ma ha promesso un rapido ricorso alla Corte suprema che legittimi il suo passo. Quest’ultima ha certamente una maggioranza conservatrice, di cui due giudici nominati proprio da Trump: tuttavia l’allineamento della Corte alle convenienze politiche del presidente, soprattutto per quanto riguarda la separazione dei poteri dello Stato, non può darsi per scontato.
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