Su Trump si è detto tutto, della sua ricchezza, della famiglia, del linguaggio e del carattere, delle sue idee politiche. Ma un aspetto della sua carriera non è stato sottolineato abbastanza né nelle cronache né nelle analisi. Prima di scendere in campo Trump è stato un divo della televisione, una pop star dei reality, specialmente grazie alle 14 stagioni del suo show The Apprendice. Al momento di decidere di correre per la presidenza era tutt’altro che un candidato semi-sconosciuto come gli altri che poi ha seminato per strada. Portava in dote un notevole capitale di popolarità e visibilità pubblica di cui si è abilmente servito per innestarvi sopra la sua campagna elettorale, come ha osservato il suo consigliere politico Roger Stone.
Essere una celebrity è senz’altro un vantaggio per avventurarsi in politica, soprattutto se, come nel suo caso, essere una star della televisione popolare (opposta a quella «impegnata») gli ha assicurato la simpatia di molti suoi fan televisivi, il cui profilo demografico si avvicinava a quello tipico del suo elettorato.
Il suo successo ci pone di fronte ad un interrogativo che tocca tanto il ruolo dei media popolari nelle vicende politiche quanto le implicazioni per il funzionamento della democrazia in un’epoca di politica mediatizzata.
Nel nostro libro Politica pop (il Mulino, 2009), Anna Sfardini e io non davamo giudizi di valore sulla bontà o meno di un fenomeno, che piaccia o non piaccia, è presente in tutte le democrazie mature. Tuttavia, davanti all’esito delle presidenziali americane di quest’anno è lecito fare un bilancio che va oltre l’analisi scientifica. In altre parole, è legittimo domandarsi se la «politica pop» sia negativa per la formazione delle opinioni politiche della cittadinanza. La questione chiaramente non riguarda solo gli Stati Uniti.
Per non fare di tutta l’erba un fascio, occorre specificare che c’è politica pop e politica pop. Non tutta è da puntare a dito. Per il semplice fatto che è proprio la grammatica televisiva che esige una componente di intrattenimento (e anche di spettacolo) nella narrazione degli eventi, tanto più di quelli di natura politica. È quel fattore che viene identificato nella «logica dei media» che impone certi formati di produzione e di presentazione ineludibili da giornalisti e presentatori. Si pensi ai talk show, che uniscono momenti di dibattito anche complesso con altri più «leggeri». E infatti i talk show sono l’esempio più diretto di politica pop accettabile, appunto perché non è solo vuoto spettacolo, puro intrattenimento, ma hanno una finalità (più o meno soddisfatta) di far crescere nel pubblico i livelli di conoscenza della politica.
Politica pop è anche la satira graffiante alla Jon Stewart o Stephen Colbert, o quella del Saturday Night Live, che in America tirano molto. Questi show si sono trasformati spesso in piazze di mobilitazione delle coscienze contro il razzismo di certa destra politica, contro le grandi compagnie petrolifere, contro la diffusione delle armi, contro lo stesso Trump in campagna elettorale. Hanno pubblici di istruzione medio-alta, tendenzialmente liberal. E inequivocabilmente i contenuti hanno finalità «educative», intendono cioè fornire chiavi di lettura critica della politica. Anche questo sottogenere della politica pop può essere annoverato tra le forme accettabili di infotainment.
C’è poi un’estesa letteratura mediatica che tratta la politica con la libertà tipica della fiction. Si pensi alla cinematografia politica e alle dozzine di serie tv (ad es. House of Cards, The West Wing e simili), che rappresentano la politica il più delle volte come un ecosistema irrazionale di competizioni feroci, di corruzione, di violenza, o, nel migliore dei casi, come un impasto di miserie umane, di scandali, di deviazioni al limite della legalità. Questo immaginario collettivo sollecita negli spettatori meno informati sentimenti anti-politici, e negli elettori l’opinione distorta della lotta e dell’azione politica. Questo tipo di «spettacolo della politica» non fa certamente bene alla democrazia.
E non fa bene alla democrazia la politica pop sinonimo delle strategie mediatiche di costruzione (o di supporto) di un’immagine di un leader politico, per renderlo «popolare». Quando cioè è mirata a rendere più accettabili le sue posizioni politiche, specialmente se anti-sistema, se offensive per le minoranze, pericolose per la pace sociale, come è stato nella campagna di Trump. Qui la politica pop prende la forma di populismo mediatico. La statura pop di Trump, pre-campagna e in campagna, da lui alimentata con quotidiano bullismo mediatico – che obbligava i media a parlarne, dandogli una enorme pubblicità gratuita (si calcola del valore di 2 miliardi di dollari) – l’ha favorito moltissimo e gli ha procurato un’audience simpatetica che è stata forse decisiva.
La politica pop è dunque tutt’altro che un aspetto trascurabile delle moderne campagne elettorali. Può essere usata come potentissima arma di lotta politica. Per formare proattivamente le coscienze o per manipolarle.
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