Trump e i repubblicani vanno d’accordo? Gli ex presidenti George Bush – padre e figlio - si sono tenuti visibilmente lontani dalla convention, assieme a molta dell’ala moderata del partito, anche se è difficile capire quanto questa possa pesare in termini elettorali. Ma anche la destra populista del partito ha sofferto di forti mal di pancia, come hanno mostrato le controversie con il potente speaker della Camera, Paul Ryan, e con lo sconfitto candidato populista Ted Cruz.
Vi sono quindi discrasie molto ampie. Tuttavia Trump è diventato il candidato ufficiale, consacrato dalla convention repubblicana, ha scelto un vicepresidente centrista, fa appello a geografie elettorali repubblicane, assume temi programmatici repubblicani. Come dare un senso a queste indicazioni contraddittorie?
L’emergere dell’attuale partito repubblicano risale convenzionalmente al 1980, quando va al potere la cosiddetta «Reagan Revolution». Il precedente partito delle élite economiche e di reddito, con una potente ala centrista negli Stati del Nord Est, e una solida tradizione tra gli agricoltori dell’Ovest, partito conservatore moderato a vocazione governativa, viene allora radicalmente modificato. Oltre trent’anni di opposizione alla prevalente «coalizione newdealista», con il suo (limitato) stato sociale e la collaborazione pubblico-privato, hanno trasformato il partito in chiave ideologica di opposizione, e hanno fatto prevalere la destra populista. I repubblicani restano favoriti tra una larga fetta del mondo degli affari, ma a questa si aggiunge anche una nuova componente popolare, insoddisfatta dell’America democratica.
Il Sud bianco – prima tutto democratico – inizia a trasmigrare ai repubblicani negli anni Sessanta, quando i diritti dei neri si affermano al centro dell’agenda politica democratica. Questo consenso si allarga a una fascia di classe medio-bassa e di colletti blu, soprattutto nelle aree afflitte dal declino dell’industrialismo tradizionale, dalla stagnazione dei salari e dalla perdita di posti di lavoro. Vi convergono ancora le robuste correnti di revivalismo religioso contrarie alla visione di vita che vedono emergere dalla rivoluzione culturale degli anni Sessanta.
Programmaticamente i repubblicani adottano una visione neoliberista, volta al ridimensionamento dello Stato a favore della libertà di mercato e d’impresa. Ciò si concreta in riduzione fiscale a favore dei redditi alti, deregolamentazione economica, aumento delle spese militari, unilateralismo internazionale, valori familiari contro l’aborto, la libera identità sessuale, la riduzione delle nascite, identificazione nella tradizione giudaico-cristiana e monopolio della lingua inglese.
Tutti i presidenti e leader repubblicani successivi hanno rivendicato di operare entro l’eredità della «Reagan Revolution».
Come si pone Trump rispetto a quest’ultima? Da una parte abbraccia temi repubblicani (a), ma li radicalizza fino a estremi che molti uomini di partito ritengono controproducenti (b). In più, assume anche (c) messaggi antipartito, frutto soprattutto della contraddizione tra politiche repubblicane del big business, e parole d’ordine populiste contro il big money e il big government.
La contraddizione tra a) e b) si palesa in Trump, «candidato impossibile». Anche Reagan lo era nel 1980, ma emergeva però dalla lotta interna al partito. L’ascesa di Trump era certo imprevedibile, ma non del tutto: nelle presidenziali del 2012, acuti osservatori avevano pronosticato che, se i repubblicani – col candidato moderato ed élitario Mitt Romney – avessero perso di nuovo contro Obama, la destra populista avrebbe scatenato una «guerra civile» per imporre un loro uomo nel 2016. Ma poi avevano perso il controllo del processo, che era uscito dallo spazio di una candidatura emersa dai ranghi del partito.
Ancora, bisogna tener conto che Trump (come a suo tempo Reagan) conduce una campagna di opposizione alla vita americana che ritiene forgiata da Clinton e Obama (e di cui Hillary è l’erede) e che si traduce nel mito del politically correct. Trump non propone ma attacca, e i suoi suggerimenti programmatici sono quindi vaghi, contraddittori e poco rilevanti. Ma anche qui è andato al di là dei pur ampi confini populisti repubblicani.
Facendo appello a un sommerso machista e razzista bianco, Trump ha offeso donne, immigrati, latinos, musulmani, e, più sottilmente, neri. Ha pervaso di questi pregiudizi il suo approccio alla politica dell’immigrazione e della sicurezza, ha galvanizzato maschi white supremacists, si è costruito ai loro occhi l’immagine di uno strong leader. Ma essendo oggi l’elettorato non-bianco un terzo del totale, i leader repubblicani sanno che non si vince senza una buona fetta di questi voti. Trump sta adesso provando a riequilibrare l’aspetto etnico-razziale della sua campagna, ma moltissimo danno è già stato fatto.
Programmaticamente Trump ha ripreso temi del neoconservatorismo repubblicano: nuovi tagli fiscali, più spese militari, meno regolazione economica, il ritiro della riforma sanitaria di Obama, una politica estera muscolare e unilaterale (ma con un’eterodossa ammirazione per Vladimir Putin), tradizionalismo nelle tematiche culturali.
Su un altro versante si è anche allontanato dai principi repubblicani, soprattutto a causa del contrasto tra il partito neoconservatore delle élite economiche e il messaggio populista contro i ricconi profittatori e i grandi capi politici ed economici. Com’è che Trump riesce a risolvere la contraddittorietà di questi due riferimenti?
Egli sottolinea certo che il benessere può tornare solo grazie all’impresa privata, ed è estremamente vago sull’incremento del bassissimo salario minimo nazionale. Ma per soddisfare la rabbia dei colletti bianchi e blu cui fa appello, e che vedono ristagnare i propri redditi, aumentare la diseguaglianza e sparire posti di lavoro assorbiti dall’innovazione tecnologica e dalla globalizzazione, il candidato promette essenzialmente una nuova «fortezza America» neo-isolazionista contro le tradizioni di unilateralismo internazionalista dei repubblicani. Promette cioè di ridurre i costi della leadership mondiale, far pagare di più gli alleati, riconsiderare soprattutto i trattati commerciali, al fine di riportare nel Paese posti di lavoro a basso e medio contenuto tecnologico, emigrati all’estero. È in sostanza l’unica vera misura che Trump promette al suo seguito populista.
Comunque vada l’8 novembre, è difficile che il partito repubblicano ne esca senza importanti modifiche sociali e programmatiche.
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