Tra il sostegno ad Haftar e l'attendismo tedesco. L'Italia potrebbe avere un ruolo centrale nella soluzione della crisi libica; tuttavia, sino ad ora, il premier Matteo Renzi ha oscillato tra il sostegno incondizionato alle politiche aggressive e filo-Haftar del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e l'atteggiamento più attendista del governo tedesco. Sebbene il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni abbia più volte ventilato la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, per il momento l'unica strada percorribile è apparsa quella del sostegno al negoziato tra i due Parlamenti di Tripoli e Tobruk con la mediazione dell'inviato delle Nazioni Unite per la Libia, lo spagnolo Bernardino Léon. Il governo italiano ha però deciso di inviare navi della marina militare per pattugliare le coste libiche in seguito ai numerosi sbarchi di migranti degli ultimi mesi.
Con l’avanzata dei jihadisti nel centro urbano di Sirte e in tutto il Paese, confermato anche dai Servizi segreti tedeschi, lo scorso febbraio il personale diplomatico dell’ambasciata italiana a Tripoli ha fatto rientro a Roma. In seguito alla chiusura delle principali sedi diplomatiche nel Paese, dopo i gravi attentati al consolato statunitense di Bengasi nel 2012 (dove perse la vita l'ambasciatore Christopher Stevens) e alle rappresentanze diplomatiche francesi, l'ambasciata italiana era rimasta una delle ultime a tenere aperti i suoi uffici in Libia, e per questo sarebbe stato il principale bersaglio dei jihadisti sulla via verso Tripoli.
Nonostante, con l'aggravarsi della crisi e dopo l'intervento unilaterale egiziano, il premier Matteo Renzi abbia inviato una missiva per il presidente Abdel Fattah al-Sisi e abbia sempre puntato sul modello di Stato contro il terrorismo, difeso dall'ex generale egiziano, il governo italiano è sembrato volersi allineare più sulle posizioni equidistanti tra le parti della Germania che sulla spinta interventista della Francia.
Per giorni sono circolate voci di un possibile intervento italiano in Libia in seguito all’aggravarsi della crisi, ribadite dal ministro Gentiloni. Se la proposta di un intervento militare italiano sotto l'egida delle Nazioni Unite ha mietuto successi bipartisan tra i partiti politici italiani e non solo (anche Malta sarebbe ben felice di un intervento che venisse presentato come risolutore della grave ferita dei sanguinosi sbarchi di migranti che partono dalle coste libiche), a lanciare un avvertimento a uno spavaldo Gentiloni ci ha pensato la radio online (che trasmette in diretta da Mosul) dello Stato islamico, al-Bayan, che, citando le dichiarazioni del governo italiano, ha definito Gentiloni come «il ministro degli Esteri dell'Italia crociata».
Il governo italiano, in virtù dell'accordo siglato nel 2008 tra il colonnello Muammar Gheddafi e l'ex premier Silvio Berlusconi, avrebbe potuto assumere un ruolo centrale nel determinare la politica libica dopo le rivolte che hanno attraversato il Medioriente nel 2011. Invece, per pressioni che forse lo stesso Berlusconi avrebbe subito dall'allora ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, in accordo con l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l'Italia concesse le sue basi per i disastrosi attacchi della Nato del 2011, voluti da Francia e Gran Bretagna, che hanno fatto a pezzi il Paese ora spaccato tra Tripolitania, Cirenaica e deserto del Fezzan.
Da quel momento le autorità italiane hanno fatto fatica a recuperare terreno, vedendo sempre più messi in pericolo gli interessi che l'ex colonizzatore aveva nel Paese, in particolare in materia di accordi petroliferi, a favore di compagnie francesi e inglesi. E così Gentiloni ha più volte tentato di correre ai ripari, dichiarando di «non voler rassegnarsi alla dissoluzione della Libia» e proponendo un intervento di peacekeeping. Tre sono le motivazioni principali di questo tentativo di recuperare terreno in extremis da parte delle autorità italiane: tornare a contenere l’influenza delle fazioni islamiste violente sull’altra sponda del Mediterraneo, arginare il flusso di migranti in fuga verso l’Europa e mantenere i rifornimenti di gas e greggio.
È importante aggiungere che questi stessi obiettivi hanno segnato i rapporti italo-libici negli ultimi trent’anni. Queste sono state le ragioni per cui negli anni Novanta le relazioni con Gheddafi subirono un cambiamento profondo. Nel 1998 il colonnello si mostrò incline a stipulare un patto con l’Italia per la lotta al terrorismo. L’allora governo guidato da Romano Prodi si accorse che in nome del suo socialismo islamico Gheddafi avrebbe potuto osteggiare l'avanzata dei nuclei jihadisti radicali, ma si capì tardi che faceva di tutta l’erba un fascio. Da ricordare il caso del massacro della prigione tripolina di Abu Salim, nel 1996, in cui vennero trucidati centinaia di jihadisti veri e presunti.
Proprio la proposta di mediazione tra le parti, non formalizzata e mai avanzata ufficialmente, dell'ex premier Prodi avrebbe potuto segnare un ruolo italiano più attivo nella soluzione delle controversie tra i due governi libici. Fin qui, però, prosegue tra alti e bassi il negoziato indiretto tra le parti il cui primo round si è chiuso la scorsa settimana a Rabat. Nonostante lo scetticismo dei militari filo-Haftar, il mediatore delle Nazioni Unite sta puntando sulla formazione di un governo di unità nazionale e sul blocco navale lungo le coste libiche.
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