Sono passati trent’anni da quel 25 giugno 1991 che ha cambiato la vita ai cittadini della Jugoslavia. Chi si ricorda la Jugoslavia? Uno Stato federale e neutrale composto da sei repubbliche e sei nazioni più altre minoranze, da quattro lingue ufficiali più altre sei-sette minoritarie, da due alfabeti. Uno Stato uscito nel 1990 dal regime comunista con le elezioni democratiche e con l’inevitabile affermazione dei partiti nazionali in ogni Repubblica. Si sapeva che la democrazia avrebbe fatto affiorare le scelte politiche nazionali. Il 25 giugno del 1991 ci furono le proclamazioni d’indipendenza da parte della Slovenia e della Croazia, le repubbliche economicamente più forti e storicamente diverse rispetto al resto della Jugoslavia. Un atto oggi ricordato come liberazione e realizzazione della statualità tanto agognata. Lo strappo sloveno e croato innescò il processo di dissoluzione della Jugoslavia.
Le tappe di questa dissoluzione vanno ricordate, devono essere memoria civile europea. Già il 26-27 giugno 1991 ci furono scontri aperti in Slovenia, tra le forze indipendentiste e l’esercito federale. Una guerra durata dieci giorni. Poi fu la volta della Croazia: un conflitto strisciante, dato che la minoranza serba era insorta e aveva a sua volta proclamato indipendenti le proprie regioni. La guerra, che nell’assedio drammatico di Vukovar ebbe l’apice, si concluse dopo cinque mesi, con una tregua. La Slovenia e la Croazia ebbero il riconoscimento internazionale nel gennaio del 1992. La crisi si spostò più a Sud. Nell’aprile del 1992 scoppiò la Guerra civile in Bosnia ed Erzegovina tra i locali serbi, musulmani e croati, e sarebbe durata oltre tre anni, con scontri tra tutte e tre le parti, con efferate violenze, stupri di massa, campi di detenzione, eccidi terribili, come quello di Srebrenica del luglio 1995, in cui furono trucidati ottomila bosniaci musulmani da parte dei reparti serbi. L’accordo internazionale di Dayton (Ohio), dell’ottobre del 1995, mise fine al conflitto e impose una soluzione statale alla Bosnia ed Erzegovina, composta, da allora, da due entità, una serba (Repubblica serba) e una federale musulmana/bosgnacca e croata.
Poi la crisi si estese al Kosovo, la regione già autonoma in seno alla Serbia, abitata da una maggioranza albanese. Anche qui violenze, scontri tra serbi e albanesi, masse di profughi, finché nel 1999 si giunse al bombardamento di Belgrado da parte della Nato. Fu il terzo bombardamento che la città subì nel Novecento. Altri scontri ci furono in Macedonia tra macedoni e albanesi, ma il conflitto fu bloccato sul nascere, tramite ingerenza statunitense. La Jugoslavia, come concetto e federazione serbo-montenegrina, sopravvisse fino al 2003. Nel 2006 la Serbia e il Montenegro si sono separate. Nel 2007, il Kosovo ha proclamato la sua indipendenza, ma non è pienamente riconosciuto sul piano internazionale.
Delle guerre jugoslave si disse fossero barbarie sulla soglia dell’Europa, che proprio in quegli anni vedeva nascere l’Unione europea. Un unico conflitto, con diversi scenari
Delle guerre jugoslave si disse fossero barbarie sulla soglia dell’Europa, che proprio in quegli anni vedeva nascere l’Unione europea. Un unico conflitto, con diversi scenari, in un mondo che pareva alla fine della sua storia, non più diviso tra potenze e ideologie. Oggi capiamo meglio i fatti: folle di profughi riprese dalle televisioni in diretta, stupri di massa come guerra psicologica, il sacrificio dei propri civili per screditare il nemico, l’intervento militare umanitario tramite bombardamenti «intelligenti», traffici in armi, droga e prostituzione attorno alle forze belligeranti ma anche tra quelle dislocate per pacificare, traffici di organi. E poi: la criminalità che diventa potere legittimato e viceversa, i mujaheddin, gli ultrà trasformati in commando, i mercenari e i contractor, e le Ong, gli inviati in carriera, la reciproca fabbricazione dell’immaginario dell’orrore, i grandi intellettuali occidentali catapultati nella regione che scelgono la loro parte e il loro palcoscenico, i media internazionali che determinano una narrazione di portata globale e infine, e a chiusura, i processi e le sentenze del tribunale internazionale dell’Aia per i crimini commessi contro l’umanità in Jugoslavia. In fin dei conti, la balcanizzazione interna ed esterna, nel senso peggiore del termine, dei Balcani. Ma anche un banco di sperimentazione, un anticipo sotto tanti aspetti, per altre emergenze belliche e civili che sono seguite.
Cosa abbiamo oggi, dopo tutto questo? Da un lato, Slovenia e Croazia sono Stati dell’Unione europa, dall’altro ci sono i cosiddetti Balcani occidentali, una non Ue dentro l’Ue, che comprende Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord, il Kosovo e l’Albania. In attesa che succeda qualcosa. Trent’anni dopo, molti sono i nodi irrisolti, tra i quali spiccano la stagnazione politica e civile in Bosnia ed Erzegovina, che mette in questione il modello di Dayton, e l’impossibile dialogo tra Belgrado e i vertici politici del Kosovo. Di fatto, sia la nazione serba sia quella albanese si trovano distribuite in tre diversi Stati. La Macedonia del Nord ha dovuto cambiare il nome per essere accettata dalla Grecia, ma trova ostacoli da parte della Bulgaria sulla incertissima strada verso l’Ue.
I Balcani occidentali sono nominati solo quando affiora nei media internazionali il dramma delle migrazioni che attraversano la regione. Sfugge l’incastro di problematiche irrisolte, che richiamano gli esiti delle guerre balcaniche dal 1912-1913 al 1999. Ci sono dinamiche integrative europee attorno ai Balcani occidentali che li escludono, li marginalizzano. La Grecia rientra nell’iniziativa EuroMed 7, un forum sorto nel 2013 che comprende pure Francia, Spagna, Portogallo, Italia e Malta. Del 2016 è il Three Seas Initiative, detto anche Trimarium, un forum di dodici Stati avviato su ispirazione della Polonia e della Croazia, forum che punta a unire ancor di più lo spazio economico, politico e sociale compreso tra il Mar Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico. Del Trimarium oggi fanno parte Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria; una compagine che traccia un confine netto, come Centro Europa, rispetto ai Balcani. Del 2014 è invece il Berlin Process, promosso dalla Germania, e, questo sì, dedicato ai Balcani occidentali. Ma, nonostante gli incontri annuali al massimo livello, l’Ue non è riuscita, oltre le belle parole, a imporre alcuna strategia. Contano assai di più, come riferimento, gli Stati Uniti, ma anche la Russia e, di recente, la Cina e la Turchia.
In questi ultimi mesi sono circolati nello spazio post jugoslavo diversi non paper, documenti non ufficiali e anonimi ma resi pubblici e di origine autorevole, in cui si ipotizza lo spostamento dei confini tra i sei Paesi e la creazione di Stati nazionali più omogenei, fatto che ha provocato una diffusa ansia e preoccupazione. Nel contempo, si parla sempre di più di abbattere i confini tra i sei Stati, sul modello del Benelux, e rendere i Balcani occidentali area partner dell’Ue. E mentre la Nato si è affermata ovunque, fuorché in Serbia e in Bosnia ed Erzegovina, i percorsi dei singoli Paesi, come candidati all’Ue, si sono arenati, dalla Macedonia del Nord all’Albania, al Montenegro. In merito nessuno si fa illusioni: ci sono pochissime speranze.
I Balcani occidentali si confermano essere tanto la periferia perdente dell’Occidente quanto il crocevia di interessi e calcoli geopolitici di potenze e semi-potenze esterne all’area. Con una popolazione di 17 milioni di abitanti e un Pil complessivo di 120 miliardi di dollari (per capirci: il Veneto su 4,8 milioni di abitanti ha un Pil di 163 miliardi di dollari), non è certo un contesto in cui fare affari. Eppure, qui convergono tutti i giochi globali. Lo si vede dai media, che sono propaggini di imprese d’informazione statunitensi, russe, cinesi, del Qatar; lo si coglie dai finanziamenti provenienti da fondazioni tedesche e da diverse Ong occidentali, così come, per le istituzioni religiose islamiche, dai soldi che arrivano dall’Arabia Saudita e dalla Turchia. La realtà è comunque grama. Lo standard di vita è assai discreto, l’emigrazione dei giovani è massiccia, le ingerenze estere condizionano i ceti dirigenti e intellettuali e l’opinione pubblica. In particolare su Belgrado, unica metropoli e centro nevralgico per ogni soluzione, convergono tutte le forze in campo. C’è disillusione dopo tutte le esperienze, tutte le cadute, e un disincanto verso l’Occidente.
Karl Kaser, grande storico e antropologo dei Balcani, individua un’Euroasia Minor, tra i Balcani, l’Anatolia, la Siria, il Libano, Israele e Palestina. Un subcontinente posto tra i due contenenti, il nucleo del mondo ellenistico, bizantino e ottomano. Né pienamente europeo né del tutto asiatico. Sfugge, ma Belgrado, Sarajevo, Tirana e Ocrida hanno un comune passato ottomano con Aleppo, Antiochia, Damasco e Gerusalemme. Un subcontinente frastagliato nelle sue complesse problematiche che percorre anche oggi una propria difficile via. Rispetto a tale storia c’è un nuovo atteggiamento nei Balcani, un atteggiamento libero dal senso di sudditanza coloniale verso i poteri forti europei, politici e culturali. Chi l’avrebbe detto che sarebbero rinate la politica e la visione culturale neo-ottomana in Turchia, assieme alla visione neobizantina balcanica, che ci sarebbe stata una forte ingerenza dei Paesi arabi, che ci sarebbe stato un canale televisivo Al Jazeera Balkans, in serbo/croato/bosgnacco, la terza lingua di questa emittente dopo l’arabo e l’inglese, che ci sarebbe stato il successo della serie tv turca «Solimano il Magnifico» in tutti i Paesi balcanici (e mediorientali).
La globalizzazione, che incita a sviluppare una riconoscibilità su scala mondiale, ha portato in auge il concetto stesso di Balcani, perché riconoscibile oltre le denominazioni statali e nazionali
L’attenzione per la diversità religiosa, dai calendari secondo civiltà (ortodosso, cattolico, islamico ed ebraico, con rispettive festività) esibiti nei quotidiani ai menù nei ristoranti, che, con discrezione, separano le grigliate di manzo da quelle di suino, così come il rilancio delle melodie balcaniche, sefardite e ottomane, fra tradizione, contaminazione e pop, ci indicano che è in atto una nuova stagione dell’accettazione reciproca e dell’accettazione del proprio passato, malgrado tutto. La globalizzazione, che incita a sviluppare una riconoscibilità su scala mondiale, ha portato in auge il concetto stesso di Balcani, perché riconoscibile oltre le denominazioni statali e nazionali. E i Balcani, al di là dello stereotipo negativo elaborato in Occidente (purtroppo anche oggi), di fatto rappresentano in sé la compresenza delle diversità, compresenza e accettazione, nonostante ferme convinzioni e continui contrasti, di religioni, confessioni, lingue, alfabeti, tradizioni civili e culturali come tipici dei Balcani. Così, a trent’anni dalla scomparsa della Jugoslavia, della sua utopia ormai lontana, i Balcani anticipano, con tutti i loro travagli, il mondo del XXI e XXII secolo.
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