Una nuova semina di vecchie idee. Il prossimo 23 giugno i cittadini albanesi si recheranno alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Sono le settime elezioni libere della storia dell’Albania democratica: le prime si tennero nel 1992, sette anni dopo la morte di Enver Hoxha e la fine di un regime statalista paranoico che per più di quarant’anni ha separato l’Albania dal resto del mondo. Il dibattito politico accende il Paese dal novembre scorso, quando le celebrazioni per il centenario dell’indipendenza hanno mostrato all’Europa un Paese unito nella ricorrenza, ma diviso nella sua interpretazione.
L’indipendenza dell’Albania fu proclamata a Vlora il 28 novembre 1912. Ismail Qemali e gli altri patrioti che sottoscrissero la dichiarazione volevano anzitutto evitare che alla dissoluzione dell’Impero Ottomano seguissero espansionismi serbi e greci: il riconoscimento internazionale ottenuto alla Conferenza di Londra del 29 luglio 1913 sancì il successo del loro tentativo politico. Tuttavia, a partire da quella data, "Albania" e "albanesi" smisero di coincidere: dei circa 6 milioni di albanesi presenti oggi nei Balcani, solo la metà vive all’interno delle frontiere del Paese: quasi 2 milioni si trovano in Kosovo, 1 milione in Grecia e mezzo milione in Macedonia.
A un secolo di distanza, mentre i controversi leader dei due principali partiti si contendono la transizione democratica del Paese – da un lato Sali Berisha, premier uscente e leader storico del Partito democratico (il centrodestra albanese), e dall’altro Edi Rama, ex sindaco della capitale e leader del Partito socialista – prende oggi vita un nuovo partito nazionalista: Aleanca Kuq e Zi, Alleanza rossonera (dai colori della bandiera albanese). Il movimento guidato dal quarantenne Kreshnik Spahiu, carismatico ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, si prefigge anzitutto di portare a termine l’unificazione della nazione albanese sognata dai padri del 1912, prima che l’"infame conferenza di Londra" dividesse il popolo delle aquile con confini politici arbitrari, volontà delle potenze straniere.
Divenuto ufficialmente un partito nel marzo 2012, Kuq e Zi nasce nel 2011 come movimento di liberi cittadini avversi alle "politiche antialbanesi" del governo. A coagulare un diffuso dissenso di matrice nazionalista fu soprattutto l’accordo tra Berisha e il premier greco Karamanlis riguardante le frontiere marittime tra i due Paesi, un "regalo alla Grecia" criticato anche dall’opposizione socialista. Nel gennaio 2012 Berisha accusò Spahiu di fare politica nel disprezzo del proprio ruolo istituzionale e con l’acquiescenza dei socialisti istituì una commissione parlamentare d’inchiesta per destituirlo dalla vicepresidenza del Csm. Spahiu sorprese tutti dimettendosi ed entrando definitivamente in politica a capo del movimento.
"Dio è il primo, l’Albania prima di tutto". Lo slogan di Kuq e Zi trae facilmente in errore, poiché l’"albanesità" propugnata dal movimento esula da qualsiasi appartenenza religiosa. Non a caso, in occasione del censimento del 2011 promosso dal governo, Kuq e Zi fu in prima linea nello scagliarsi contro i quesiti relativi all’appartenenza etnica e religiosa, additando in essi criteri volti a valorizzare differenze irrilevanti rispetto all’unificante "albanesità" e a legittimare quei cittadini albanesi del Sud che avevano chiesto e ottenuto la cittadinanza greca in virtù delle loro lontane origini. Questo slogan fuorviante è, in realtà, in perfetta linea con il linguaggio populista e roboante del Kuq e Zi, i cui messaggi politici rimangono volontariamente nebulosi. Forse anche per questo Spahiu viene spesso descritto dai commentatori autoctoni come "il Grillo albanese". Questo giovane leader sta effettivamente sfruttando molto bene la possibilità di farsi portavoce dello scontento generale, non solo attraverso la carta emotiva della riscossa nazionale su base etnica – una strategia tutt’altro che nuova nel contesto balcanico e che trova una valida sponda nel movimento kosovaro Vetevendosje – ma soprattutto lucrando consenso dal discredito di una classe politica reciprocamente compromessa. Le arringhe contro la casta democratico-socialista, l’indisponibilità al dialogo con la coalizione di Rama e la presunzione di virginea alterità rispetto a tutti gli altri concorrenti politici rendono facile il paragone tra Spahiu e il leader del M5S – specie per i giornalisti albanesi, da sempre attentissimi alla politica italiana.
Tuttavia il paragone è forzato, non solo per l’europeismo di Spahiu e la sua mancanza d’interesse per la Rete, ma soprattutto perché il fenomeno Kuq e Zi affonda le radici nella specificità del contesto albanese. La forza di Spahiu risiede sicuramente nella semplicità del suo messaggio nazionalista, ma a renderlo efficace è la difficoltà della contingenza politica del Paese: piagata dalla corruzione, frenata da partiti politici incapaci di rinnovarsi e respinta da Bruxelles per la terza volta, l’Albania di oggi è il terreno ideale per la nuova semina di vecchie idee. A un secolo da un’indipendenza sostanzialmente nominale – poiché alla creazione del piccolo Stato seguirono le due invasioni italiane e la dittatura comunista – il mito della "grande Albania" riesce quindi a fornire un’immagine facilmente fruibile di riscatto nazionale.
Sebbene non sia possibile prevedere il risultato di questa neonata formazione – la manifestazione nazionale organizzata a Tirana il primo maggio è stata oggettivamente un flop – fa sicuramente riflettere come al mito dell’Occidente americano ed europeo, un sogno diffuso tra la popolazione albanese e punto cardine della politica di tutti i partiti, si affianchi un imprecisato sentimento nazionalista che travalica i consueti confini dell’empatia filo-kosovara e pro-Çamëria riuscendo, per la prima volta, a coagularsi in una forza politica che promette di essere determinante per la formazione del nuovo governo.
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