Oggi Amatrice, quattro anni fa Modena, nel 2009 l’Aquila e così via a ritroso, Umbria e Marche, Assisi, San Giuliano e tutte le altre tragedie provocate dal terremoto, ognuna con i suoi morti, ognuna con la distruzione di abitati storici e di irripetibili patrimoni storici e artistici. Il tutto condito dagli stessi, immensi problemi, su cui puntualmente ci ritroviamo a dibattere. Perché? Per l’immenso ritardo culturale delle istituzioni, in primis le soprintendenze e le università, che queste catastrofi non dico dovrebbero impedire (visto che non si può), ma su cui certamente dovrebbero lavorare per mitigarne gli effetti, come invece si può e si dovrebbe fare.
Anni fa un importante giurista, Michele Pallottino, osservando lo scempio commesso ai danni del territorio italiano dalla speculazione edilizia, commentò che, se fino al 1967 (anno della legge ponte sull’urbanistica) si poteva parlare di «aggressione lecita al territorio e al paesaggio», non essendo stato possibile fino a quel momento contenere l’impatto del boom economico del secondo dopoguerra, a partire da quell’anno si doveva invece parlare di «aggressione illecita al paesaggio e al territorio».
Per quanto riguarda i terremoti, è dal 1983 che non li si dovrebbe più definire «disastri incontenibili», vale a dire da quando si concluse il lungo lavoro di ricerca ideato e coordinato da Giovanni Urbani, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro (Icr) – nato anche al seguito dei duemila e oltre morti del sisma del novembre 1980 in Irpinia – su La protezione dal rischio sismico del patrimonio monumentale e dell’edilizia storica. Da allora sono trascorsi 33 anni, scanditi dalla mancata prevenzione del patrimonio monumentale e dell’edilizia storica.
Già quel rapporto dimostrava infatti come oltre la metà del territorio italiano si trovasse esposto a un più o meno grave rischio sismico, e fosse quindi folle costruire nuove abitazioni in quelle zone. Lo studio indicava inoltre come fosse comunque possibile limitare la portata dei danni provocati dai terremoti, a partire dall’adozione degli stessi accorgimenti con cui si sono storicamente protetti chiese, monumenti, palazzi e semplici abitazioni: catene ai muri, archi e speroni di contenimento, ponticelli tra casa e casa, tetti in legno e così via. Risalta il grave ritardo culturale dell’università, intenta a inseguire la via del cemento, favorendo i consolidamenti delle strutture murarie con pompaggi di cemento liquido, ossia inserendo nelle murature perni metallici, ovvero ancora piazzando sugli edifici – ex lege! –cordoli di cemento che poi finiscono per favorire e aggravare i danni prodotti dai terremoti. In considerazione di tutto questo Urbani pensò di fare del suo lavoro una mostra itinerante per le soprintendenze italiane, chiedendo ai colleghi soprintendenti di farne oggetto di dibattiti con università, enti locali, regioni e ordini professionali.
Ma delle soprintendenze italiane (che allora erano 78) solo due richiesero la mostra.
Da allora poco o nulla è cambiato. L’università può continuare a avere una illimitata fiducia nelle magnifiche e progressive sorti del cemento, ad esempio lottando (conniventi le soprintendenze e l’Icr) per conservare nella Basilica di Assisi e nella Cappella degli Scrovegni – quindi in due dei supremi monumenti della civiltà figurativa dell’Occidente – rispettivamente, il cordolo e il tetto in cemento, e il cordolo in cemento e il tetto in ferro. Le soprintendenze (quindi il ministero) possono in tutta libertà non provvedere a condurre un’azione di conservazione preventiva del patrimonio artistico dai danni ambientali – qui sismici, ma lo stesso vale per quelli idrogeologici, da frane e così via. L’Icr può continuare a operare come ancora fossimo negli anni Trenta del Novecento dei suoi padri nobili, Argan e Brandi, mandando i suoi allievi a risarcire le lacune delle opere d’arte devastate dai terremoti con colori all’acquarello, garze e resine acriliche. Le scuole universitarie di architettura possono continuare a progettare le parti nuove delle città senza prendere come punto di traguardo la città storica, impedendo che nei propri laureati si formi la cultura necessaria per misurarsi con quella Storia che permea in ogni dove l’Italia: nel caso in questione, si tratterebbe di misurarsi con le ricostruzioni dei luoghi terremotati secondo forme, proporzioni e materiali che possano restituire alle popolazioni (nella gran parte persone anziane) l’umanissimo sentimento d’appartenenza ai luoghi in cui sono nate (si veda lo squallido deserto che è l’ideologica «nuova Gibellina» costruita dopo il terremoto del 1968). E qui mi fermo, ma si potrebbe continuare…
Soluzioni? Prendere finalmente atto che a rendere unico al mondo il nostro patrimonio artistico è la sua indissolubilità dall’ambiente su cui è andato stratificandosi nei millenni. Da lì inaugurare una nuova e innovativa politica di tutela del patrimonio storico e artistico che abbia al proprio centro la questione ambientale e che sia frutto di un grande progetto internazionale elaborato dal meglio di università, soprintendenti e restauratori in strettissima collaborazione con enti locali, regioni e proprietari privati: quindi Chiesa, Fai, dimore storiche e quant’altri. Un progetto che impegnerebbe il Paese per qualche decina di anni e al cui finanziamento si dovrebbe chiamare l’intera Europa, se non l’intero Occidente, chiarendo fin dall’inizio che il suo obiettivo dovrebbe essere la fondazione di una «ecologia culturale» in cui economia, ambiente, storia e monumenti convivano armonicamente tra loro. Qualora attuato, un progetto del genere costituirebbe un bacino di lavoro altamente qualificato per moltissime persone, specie giovani, in ambito scientifico come della produzione industriale, delle nuove tecnologie, dell’agricoltura. Di questi tempi, un valore aggiunto di non poco conto.
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