Il settore delle fonti rinnovabili, e dell’energia eolica in particolare, sta attraversando in Italia un momento difficile, forse decisivo per la sua stessa sopravvivenza. Se, infatti, si prova per un momento a sbirciare oltre le ipocrite e retoriche affermazioni con cui governatori delle regioni e ministri continuano a proclamare la necessità di sviluppo delle energie pulite (dichiarazioni che erano politically correct anche prima di quella recente, e ben più autentica e sofferta, del presidente degli Stati Uniti), lo sguardo si apre su uno scenario che non tutti immaginano.
Un semplice dato, a mò di premessa: nel 2010, nonostante mille difficoltà e resistenze, l’Italia può contare su oltre 5.000 MW di potenza eolica, e in sede comunitaria si è impegnata almeno a triplicare questo quantitativo entro il 2020. Ci si attenderebbe di conseguenza l’avvio di campagne di sensibilizzazione nelle scuole e presso la collettività, l’impegno di apparati burocratici a scegliere i progetti migliori e a promuoverne la presentazione, la promozione di concorsi di idee, parchi tematici…
Il quadro è, purtroppo, molto diverso.
Quasi tutte le regioni hanno sistematicamente ostacolato l’approvazione di progetti eolici con norme pesantemente restrittive e istruttorie lentissime, affidate a funzionari spesso inadeguati o a strutture sottodimensionate. Alcune, come Basilicata e Sardegna, per anni hanno apertamente boicottato l’eolico con moratorie ed espedienti diversi, impedendo all’imprenditoria privata di effettuare investimenti sul loro territorio in nome della protezione del paesaggio. Ora stanno invece giocando la carta di «riservare» il vento a società energetiche pubbliche, nei confronti delle quali l’ipocrisia della pregiudiziale ambientalista si svela, dissolvendosi come neve al sole, con buona pace dei principi di liberalizzazione, privatizzazione e libero mercato.
Quanto ai comuni, se non scelgono di cavalcare la tigre dei «comitati contro» è perché (anch’essi) cercano di trarre il maggior profitto economico possibile dalla green energy, pretendendo onerosissime royalties, che costituiscono una forma di incontrollata distorsione degli incentivi pubblici che noi tutti paghiamo in bolletta per sostenere le energie alternative.
In questo clima di autentico boicottaggio legislativo e amministrativo – dove nessuna attenzione è riservata alla qualità dei progetti, ma ogni pretesto è utile alla loro bocciatura – giudici amministrativi (Tar e Consiglio di Stato) e Corte Costituzionale hanno forzosamente assunto il ruolo di attori comprimari; la patologia rappresentata dal rimedio giudiziale contro l’inerzia amministrativa o contro norme ingiuste si è dunque trasformata, in alcune regioni (Puglia e Sicilia innanzitutto), in approccio fisiologico e necessario.
E lo Stato cosa fa?
Lo Stato, animato da infaticabile fervore federalista, aveva a suo tempo scelto di affidare alle regioni il decisivo compito di autorizzare gli impianti eolici e così assicurare il rispetto degli impegni assunti dall’Italia sia con il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni climalteranti sia con il pacchetto «20–20–20».
Ora, quello stesso Stato, già stoltamente fiducioso nella capacità delle regioni di superare i localismi e di collaborare lealmente al raggiungimento di obiettivi politici, non riesce neppure (ma ci ha mai seriamente provato?) a superare l’ostruzionismo con cui la Conferenza unificata impedisce ormai da 7 anni l’approvazione di linee guida nazionali che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) semplificare e unificare le procedure autorizzative e far decadere le norme localistiche più marcatamente restrittive.
A ben vedere, neppure il governo nazionale sembra così sinceramente convinto della necessità di «ridurre gli ostacoli normativi e di ogni altro tipo all’aumento della produzione di elettricità» da fonte eolica (così recita la lungimirante direttiva comunitaria, che sembra scritta proprio pensando all’Italia). Infatti, se da una parte occorre pur riconoscere che alcune importanti sentenze della Consulta di annullamento delle disposizioni regionali più macroscopicamente incostituzionali sono state originate da ricorsi promossi direttamente dal governo, dall’altra va registrato, per esempio, che il ministero dei Beni culturali e ambientali – nell’articolazione territoriale delle sovrintendenze – è il più sistematico e organizzato reparto di avversari dell’eolico, impegnato in una vera crociata ideologica per la bocciatura del maggior numero possibile di progetti.
In verità governo e Parlamento sembrano preferire le gride manzoniane all’azione concreta: leggi dello Stato sin dal 2003 periodicamente ed enfaticamente ripetono che «entro sei mesi dalla approvazione della presente legge» la Conferenza unificata dovrà approvare il burden sharing, ossia l’accordo con lo Stato per la ripartizione, tra le regioni, degli obblighi di installazione di impianti rinnovabili, suddivisi per fonte. Ma ormai è come aspettare Godot.
Le stesse leggi continuano a minacciare l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato contro le regioni che ostacolano o boicottano il raggiungimento degli obiettivi energetici, ma si sa che la minaccia troppe volte inutilmente ripetuta si trasforma in implicita promessa di impunità.
Per non parlare della noncuranza con cui periodicamente il governo e l’Autorità per l’energia elettrica e il gas (Aeeg) attentano alla stabilità del mercato e alla fiducia degli investitori, modificando anche retroattivamente i sistemi di incentivazione e introducendo elementi di incertezza che, soprattutto agli occhi delle imprese straniere che hanno investito in Italia, appaiono inverosimili prima ancora che intollerabili.
Ed è così che il settore eolico italiano può essere usato quale autentica cartina di tornasole dello stato di sviluppo del Paese: la vitalità dell’imprenditoria italiana si misura con l’inadeguatezza culturale, prima ancora che tecnica, degli apparati politici e amministrativi; la vulgata dell’ambientalismo riesce a trasformare installazioni quasi completamente innocue e capaci di evitare l’immissione di milioni di tonnellate annue di inquinanti in atmosfera in terribili mostri che attentano alla bellezza dei nostri crinali; le promesse della politica ancora una volta non vengono mantenute; i tempi della burocrazia sono scanditi da un orologio gravemente in ritardo sui tempi dell’economia e della società.
Una nota di ottimismo, però, si intravede: una recente ricerca di Renato Mannheimer ha svelato non soltanto che l’80 per cento degli italiani ritiene giusto continuare a incentivare l’eolico, ma che la percentuale resta saldamente attestata al 78 anche quando si intervista chi risiede nelle vicinanze di una fattoria del vento.
Non si può che sperare, allora, che il Paese reale si mostri più maturo e più disponibile allo sviluppo e all’innovazione della sua rappresentanza politica e che presto gli italiani trovino il modo di spiegare alle sovrintendenze che i parchi eolici sono belli da osservare e da visitare, che il paesaggio può diventare più suggestivo quando rivela la punteggiatura delle immense girandole tecnologiche e che i «pareri negativi» sono espressione di una cultura arretrata, ormai incapace di rappresentare adeguatamente l’«interesse pubblico».
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