Ariel Sharon. Se ne è andato dopo otto anni di coma, passando dal silenzio, al quale era stato consegnato a causa di una grave emorragia cerebrale, alle polemiche, così come agli encomi, che si sono accompagnati all’annunzio della sua morte e ai suoi funerali.
In Israele la commozione è stata grande. Nei territori palestinesi la reazione è stata di segno esattamente opposto. Ariel Sharon, già generale e premier d’Israele, è una figura che ha assommato su di sé un’incredibile polarizzazione, tra dichiarati consensi ed esacerbati dissensi. In lui c’è chi vede non solo il principale responsabile degli eccidi commessi dalle milizie falangiste nei campi profughi di Sabra e Shatila, a Beirut, nel Libano, ma uno dei maggiori artefici della politica di contrapposizione netta da parte del suo Paese nei confronti dei palestinesi e, quindi, di una soluzione negoziata del conflitto tra i due popoli.
Chi invece gli tributa omaggio ritiene che la sua figura assommi le doti di un condottiero militare, abile e spregiudicato, alle qualità di un uomo politico duro ma realista nonché determinato. Di fatto ha passato la quasi totalità della sua esistenza a combattere, prima indossando la divisa e poi rivestendo i panni di leader del «campo nazionale», la destra israeliana. In questo rivela molte analogie con la traiettoria esistenziale di quello che è stato il suo alter ego, benché collocato su posizioni politiche opposte, Yitzhak Rabin, assassinato quasi vent’anni fa. Nato nel 1928, nella Palestina sotto il mandato britannico, figli di due ebrei provenienti dall’Europa dell’Est, cresciuto in una cooperativa agricola, già a quattordici anni apprende, passo dopo passo, il mestiere delle armi.
Di fatto, in quella terra, il nesso tra identità personale, idealità politica, milizia armata e lavoro di ogni giorno era così saldo da risultare qualcosa di imprescindibile nell’orizzonte esistenziale di un giovano motivato all’impegno. Si trovò così a combattere insieme alle costituende forze armate israeliane, quando nel 1948 nacque lo Stato ebraico, e a rimanervi, sia pure con rapporti e a fasi alterne, soprattutto quando la sua determinazione, sposata all’irruenza, ne condizionarono significativamente la carriera.
Generale in giovanissima età, si scontrò con l’allora influente ministro della Difesa Moshe Dayan, che intervenne affinché non gli fosse dato l’incarico di Capo di stato maggiore
Generale in giovanissima età, si scontrò con l’allora influente ministro della Difesa Moshe Dayan, che intervenne affinché non gli fosse dato l’incarico di Capo di stato maggiore. La sua nemesi si misurò con la gravissima crisi del 1973, quando Israele rischiò il tracollo militare. Le doti di pragmatismo, le qualità tattiche e il carisma gli permisero di ribaltare la situazione nel Sinai, arrivando a minacciare il Cairo. Diversa prospettiva assunse per lui – invece – la guerra del Libano, nel 1982, dove nella qualità di ministro della Difesa pianificò l’invasione del Paese, assumendosi la corresponsabilità politica di una parte degli eventi che ne costellarono la sua lunga e incongrua durata. Da quel momento la figura di Sharon fu sempre più spesso identificata con le colpe di chi cerca la guerra perché non vuole la pace. Ministro della destra in più governi, ne rappresentò l’identità post-revisionista, quella che è segnata dalla scomparsa dei padri fondatori della destra sionista, a partire da Menachem Begin. L’ulteriore accento sulla sua spregiudicatezza fu offerto dalla «passeggiata» sulla spianata delle Moschee, a Gerusalemme, compiuta nel settembre del 2000, quando era a capo dell’opposizione parlamentare. Una provocazione intollerabile, per la controparte palestinese, alla quale rispose dicendo che si trattava di un atto di sovranità israeliano. Di fatto quel gesto fece precipitare quello che restava della complessa e al contempo fragile intelaiatura degli accordi di Oslo. Fatto, tuttavia, che gli valse il consenso di una parte dell’elettorato e la premiership, accompagnandola a tre altri gesti clamorosi: il ritiro israeliano da Gaza, la costruzione di una barriera perimetrale con la Cisgiordania e l’uscita dal partito Likud, al quale sostituì la costituzione di una formazione politica centrista, Kadima.
La malattia gli ha impedito di andare oltre. Di fatto la figura di Sharon attraversa tutta la seconda metà del Novecento politico, d’Israele ma non solo. Ne esprime la dimensione militante, quella che promanava dall’idea di mobilitazione permanente, nel nome del paradigma, imprescindibile e inscindibile, tra sicurezza e identità.
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