Ha fatto giustamente notizia l’avanzamento nelle sedi internazionali della proposta di fissare una tassazione uniforme del 15% per le grandi imprese multinazionali, al fine di limitare il profit shifting (la pratica di spostare i profitti nei Paesi a più bassa tassazione) reso possibile, in particolare, dalla natura immateriale dei prodotti digitali. La pianificazione della tassazione a livello internazionale (tax planning) è da sempre praticata dalle multinazionali con il meccanismo dei prezzi di trasferimento: le sussidiarie localizzate nei Paesi a elevata tassazione riducono i profitti al minimo in quanto la casa madre sposta su di esse non solo i costi diretti (monitorabili in proporzione alla produzione locale) ma gran parte dei costi indiretti e generali, che sono la parte prevalente nei settori a capitale intangibile. In questo modo i costi della casa madre e delle sussidiarie nei Paesi a bassa tassazione vengono alleviati, aumentando artificialmente i profitti laddove sono meno colpiti.

Il problema che si pone con la produzione di beni digitali è, naturalmente, che gran parte dei costi di produzione ha natura fissa, mentre i costi diretti sono trascurabili. Come si può stabilire correttamente (cioè senza entrare in un contenzioso legale potenzialmente infinito) quale quota dei profitti di Google o Facebook o Amazon derivi dagli utilizzatori italiani e vada quindi tassata in Italia? È ormai noto che le prime cinque imprese digitali (GAFAM: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) capitalizzano oltre un trilione di dollari in borsa; quattro di esse figurano tra le prime cinque per volume di riacquisto delle proprie azioni al fine di sostenerne il corso. A fronte di questi valori la tassazione complessiva a livello mondiale è modestissima.

Le istituzioni internazionali immaginano di affrontare il problema uniformando le aliquote, cioè riducendo la competizione fiscale tra Paesi, nella speranza di limitare lo spostamento dei profitti e far emergere capacità contributiva tassabile. Questa prospettiva è anche al centro di varie proposte politiche recenti, da quella di Piketty al liberalismo inclusivo di Salvati e Dilmore.

Io vorrei suggerire una prospettiva diversa e complementare. Essa parte da una riconsiderazione della natura economica e giuridica dei beni prodotti. In premessa (da sviluppare in altra sede) resta la domanda sul perché, a fronte della enorme avanzata della produzione digitale nel ventennio scorso la riflessione economica, giuridica e di analisi economica del diritto abbia esitato così a lungo nel porre temi fondamentali. Gran parte della analisi si è infatti concentrata sull’impatto del digitale sui diritti individuali acquisiti, come la privacy, e sul rischio di un capitalismo della sorveglianza, rinviando la questione relativa alla natura dei beni digitali e alla adeguatezza degli schemi giuridici utilizzabili per la sue regolazione economica. Questa riflessione ha trascurato la evidenza storica, al centro della tetralogia di storia dell’architettura di Carlo Olmo, secondo la quale a ogni passaggio di discontinuità nei processi di produzione corrisponde un conflitto, visibile nella regolazione dello spazio tipico della urbanistica, tra diverse modalità di regolazione del rapporto tra pubblico e privato.

È noto che il modello di funzionamento delle imprese digitali si fonda sulla acquisizione di enormi moli di dati, tratti dall’accesso libero alla rete Internet e/o dalla azione degli utilizzatori. I dati non hanno di per sé valore, ma lo acquisiscono se estratti e processati con algoritmi. Questi sono protetti in quanto opere dell’ingegno. Così mentre gli utilizzatori hanno accesso gratuito ai motori di ricerca e ai social media le elaborazioni dei dati vengono vendute in modo customizzato a vari clienti paganti, in particolare a imprese, attori politici, governi.

Qual è il contratto che imprese come Google o Facebook fanno con l’utente? L’utente non paga il servizio di accesso, in cambio della rinuncia a qualunque pretesa sui dati che fornisce

Qual è il contratto che imprese come Google o Facebook fanno con l’utente? L’utente non paga il servizio di accesso, in cambio della rinuncia a qualunque pretesa sui dati che fornisce (tranne la protezione, appunto, dei diritti di privacy e collegati). Si tratta della applicazione di uno schema di vendita: una volta perfezionata la transazione, la società diviene proprietaria dei dati. Secondo il diritto civile moderno, la proprietà garantisce un uso esclusivo e assoluto del bene. Come mostra la recente analisi storica di Cesare Salvi, lo schema del diritto di proprietà nasce avendo come principale oggetto beni tangibili come la terra (proprietà fondiaria) e il capitale fisico (proprietà dei mezzi di produzione capitalistici), per essere solo successivamente esteso a beni intangibili come le idee (proprietà intellettuale), i contratti finanziari, oggi i beni digitali.

La adeguatezza dello schema proprietario per i beni digitali va problematizzata. Cosa hanno in comune i beni tradizionali oggetto della proprietà moderna? A me pare che elemento essenziale della assegnazione di diritti esclusivi e assoluti sia la presenza di limiti insuperabili alla intensità di sfruttamento dei beni, quindi al loro valore economico potenziale. Nel caso della terra, il limite è di origine naturale: una volta coltivata, la terra produce un numero finito di raccolti per anno. Nel caso del capitale, il limite è di tipo tecnologico: le macchine si usurano e vanno sostituite. L’accumulazione del capitale non è un fatto automatico, inscritto nel diritto di proprietà iniziale: quando le macchine esauriscono la vita utile, se l’imprenditore non è capace non avrà la liquidità per proseguire le attività. Anche per la proprietà intellettuale la presenza di un limite temporale segnala la consapevolezza del problema: un brevetto potrebbe produrre valore per tempi e volumi indefiniti, ma proprio per questo la legislazione pone una durata fissa (vent’anni), oggi sostanzialmente uguale in tutti i Paesi, e limita la protezione ad una specifica giurisdizione. Suggerisco che lo schema della proprietà esclusiva e assoluta è apparso giustificato alla riflessione filosofica e giuridica moderna anche in ragione di questi limiti insuperabili. Non a caso (ancora Salvi citando il classico Principia Iuris di Ferrajoli: la riflessione giuridica non considera ovunque il diritto di proprietà come un diritto fondamentale, ovvero un diritto universale, indisponibile e basato sulla legge, ma in prevalenza come un diritto singolare, disponibile e basato sui titoli previsti dalla legge.

Sapere cosa compro da Amazon non ha alcun valore in sé. Ma se il mio dato viene combinato con quelli di altri consumatori acquista un valore potenzialmente elevatissimo

È applicabile questo schema giuridico ai dati? Il valore economico dei dati è fondamentalmente indeterminato, va da zero a (quasi) infinito. Il valore è prossimo a zero se i dati non sono strutturati e organizzati. Facciamo un esempio. Sapere cosa compro oggi da Amazon non ha alcun valore in sé. Se chiedessi di essere pagato per fornire questo dato non troverei un acquirente. Ma se il mio dato viene combinato con quelli di altri consumatori, o con la serie storica dei miei acquisti, o con altri dati del mio profilo sociale o culturale, acquista un valore potenzialmente elevatissimo. Ma di questa differenza di valore non avrò mai alcuna consapevolezza, in quanto non ho accesso agli algoritmi protetti e non so quante volte e in che modo il mio dato verrà usato.

Su questa mancanza di consapevolezza si innesca il rapporto contrattuale. Riprendiamo l’esempio: ogni volta che ricevo un servizio gratuito dal motore di ricerca o dalla piattaforma social fornisco un consenso ad uno schema contrattuale in base al quale rinuncio ad ogni pretesa sui dati. Con ciò affermo l’equivalenza (al margine, dicono gli economisti) tra il beneficio che ricevo e il beneficio che genero al fornitore cedendogli i miei dati. Ma questa equivalenza si fonda su un artificio: il fornitore mi sta (di fatto) illudendo che il beneficio che genero per lui ha sempre lo stesso valore, è uguale (al margine) al beneficio che ricevo io utilizzando il servizio, che è costante. Ma così non è. Una volta creata la piattaforma e strutturati gli algoritmi, il valore dei dati che fornisco all’impresa digitale aumenta continuamente. Ma l’impresa digitale continuerà a pagarmi sempre allo stesso modo, offrendomi gratuitamente accesso al motore di ricerca o ai social media. A me pare che questa circostanza consenta una violazione sostanziale della relazione contrattuale.

Quindi da un certo punto in poi l’impresa digitale riceve input di produzione il cui valore eccede sistematicamente i costi che sostiene. Si tratta, tecnicamente, di una rendita. L’impresa non paga una parte dei suoi fattori di produzione. Non si tratta di profitto, perché questo dipende dalla differenza tra ricavi e costi sostenuti. In questo caso i costi non sono sostenuti.

Quanto vale questa rendita? Senza poterci dilungare in un esame tecnico, si potrebbe argomentare nel modo seguente. Primo, si potrebbe calcolare il punto di breakeven, ovvero il volume delle vendite che copre i costi fissi dell’impresa digitale (indicativamente, i costi di investimento nello sviluppo della piattaforma e i costi di manutenzione corrente). Prima di questo punto si può assumere l’assenza di rendita: il valore ceduto dagli utilizzatori corrisponde al valore che ricevono dai servizi offerti gratuitamente. Dopo questo livello, tuttavia, una volta coperti i costi fissi, si può assumere che il fatturato delle imprese digitali incorpori una quota di rendita non pagata. La rendita è quindi proporzionale al numero di utenti che forniscono dati una volta superato il breakeven. Secondo, si potrebbe imputare un valore standard per ogni dato fornito dagli utilizzatori. I dati sugli utilizzatori sono ovviamente tracciati da tutti i giganti digitali e sono in gran parte pubblici. Con una analisi empirica ragionevolmente breve si potrebbe calcolare il valore creato da ogni utente con l’utilizzo delle piattaforme oltre una certa soglia.

Terzo, si potrebbe invocare lo schema giuridico che assegna la proprietà dei dati a coloro che li hanno generati. Questo schema è già consacrato nella regolazione europea dei dati finanziari, che è all’origine dell’Open Banking: sono i titolari e non le banche ad essere proprietari dei dati. La recente regolazione del Data Governance Act sembra muoversi in questa direzione, anche se con qualche incertezza. Sulla base di questa regolazione giuridica si potrebbe formulare la pretesa che i giganti digitali riconoscano che una parte del loro valore di capitalizzazione (una parte del goodwill, o dell’avviamento, nel linguaggio aziendale) è di proprietà degli utenti. A questo punto si tratterebbe di azionare un meccanismo fiscale, tutto da progettare, che assegna tale valore in proporzione al numero degli utenti, sulla base della ipotesi che le differenze nella intensità di uso siano trascurabili. In prima approssimazione si dovrebbero riconoscere alle autorità fiscali dei paesi in cui sono localizzati gli utenti, un dato di facile ricostruzione. Non si tasserebbero i profitti, ma la rendita prima dei profitti. Che questo oggi corrisponda di fatto a una imposta patrimoniale non è un dato di natura e non ha alcuna intenzionalità punitiva; è la conseguenza del ritardo della disciplina giuridica nel riconoscere il valore economico dei dati. Tale ritardo ha di fatto inflazionato oltre misura la capitalizzazione di borsa, consentendo agli azionisti di scontare (correttamente, da questo punto di vista) profitti futuri in eccesso, in quanto non gravati dai costi necessari a riconoscere al fattore produttivo dei dati la adeguata remunerazione.