La lunga marcia dell'Islam in Asia Centrale. Il risveglio islamico in Asia Centrale costituisce uno dei fenomeni storici più importanti degli ultimi decenni. Dopo decenni di oppressione sovietica, la rinascita dell’identità islamica in Asia Centrale ha rappresentato una importante riappropriazione del proprio patrimonio spirituale e identitario da parte delle popolazioni dell’Asia Centrale. A partire dagli anni ’80, ed in particolare durante l’epoca gorbacioviana, ad un accorto mix di nazionalismo e culto della personalità del leader, si è accompagnata una parziale rinascita religiosa vista come potente collante culturale e identitario della nuova fase. Ciò, ovviamente, ha portato, nonostante le reiterate promesse da parte dei governi locali di adottare istituzioni di tipo liberale, a escludere di fatto la transizione verso una democrazia liberale di matrice occidentale. La stessa rinascita islamica in alcuni casi è stata portata avanti dai governi locali con esitazione e moderazione a causa del timore della possibile diffusione del fondamentalismo islamico che ora raccoglie numerosi adepti, in particolare nella valle di Fergana (suddivisa tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan). Alcuni Stati dell’area, come il Kazachistan ed il Kirghizistan, nonostante la riscoperta delle proprie radici religiose, hanno sostanzialmente mantenuto il carattere laico dello Stato, mentre altri, come l’Uzbekistan, hanno inaugurato una politica di riscoperta delle radici culturali islamiche che vengono poste a fondamento della nazione cui conferiscono una legittimità storico-culturale, pur senza rinunciare del tutto alla laicità dello Stato. La riscoperta della religiosità islamica in Asia Centrale si è quindi manifestata in maniera non uniforme, assumendo forme e modalità diverse da paese a paese, a seconda delle tradizioni culturali preesistenti. Il difficile equilibrio tra la politica statale di incoraggiamento alla riscoperta delle tradizioni religiose quale prioritario fattore di rafforzamento della coscienza nazionale e, allo stesso tempo, il timore che ciò possa favorire la diffusione dell’estremismo islamico è un esercizio estremamente delicato per i governi dell’area.
Stati come Arabia Saudita, Turchia, Egitto e Iran hanno sollecitato la rinascita del fenomeno religioso in Asia Centrale, che è divenuta, nel corso degli anni ‘90, un terreno di feroce competizione tra questi paesi volta alla “reconquista” islamica di uno spazio soggetto per molti decenni all’impero sovietico e quindi sostanzialmente chiuso alle influenze del resto del mondo. Ciò è avvenuto con la costruzione di moschee, di madrasse e con la concessione di borse di studio ai giovani per effettuare periodi di soggiorno in paesi islamici dove apprendere o perfezionare i precetti religiosi dell’Islam. La nascita di un Islam radicale (wahabita) d’importazione e non moderato e sincretico come quello locale (hanafita) non ha però, ovviamente, mancato di suscitare forte preoccupazione presso le autorità statali locali, la cui ragion d’essere, specialmente nei confronti degli interlocutori occidentali, viene appunto individuata nella lotta all’integralismo islamico che diviene la giustificazione ufficiale per l’immobilismo politico, l’autoritarismo e la generale corruzione che caratterizza i governi locali. Il cortocircuito che si determina è dato dal fatto che proprio immobilismo, autoritarismo e corruzione rischiano di alimentare l’espansione del movimento fondamentalista, in particolare se la corruzione dell’apparato governativo continuerà ad aumentare e quindi a polarizzare le già accentuate differenze sociali esistenti, soprattutto quelle tra città e aree rurali, ancora caratterizzate da grande povertà e da un maggiore radicamento del sentimento religioso. Ciò vale in particolare per l’Uzbekistan ed il suo presidente, Islam Karimov, impegnato in una lotta senza quartiere contro l’estremismo islamico ma, al tempo stesso, “uomo forte”di un paese in cui stato di diritto e libertà civili sono quasi del tutto assenti.
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