Fra i tanti motivi di trepidazione che ci colpiscono davanti all'anno nuovo, ce n'è uno continuamente dimenticato, oppure ricordato solo in questo momento di passaggio: come se non ci toccasse più direttamente e più urgentemente dei temi della riforma della giustizia o della revisione costituzionale. Si tratta di un tema trasversale, post-idelogico, laico, ecologico e allo stesso tempo ecumenico, eppure sistematicamente sottovalutato: la qualità della vita. Eppure, come ci ricorda il numero monografico appena dedicato al tema da "Filosofia politica", i filosofi sono tornati da tempo a parlare di vita; riviste e convegni e dibattiti traboccano di discorsi sulla «nuda vita», «questioni vitali», «sacralità della vita», «bioetica», «biopolitica». È come se da sotto altri temi più divertenti, nel senso che fanno divergere la nostra attenzione dall'essenziale, cominciassero a fare capolino i veri problemi: quelli che toccano davvero, e bruciano, la carne e la pelle delle persone.

Sulla qualità della vita, al massimo, ci intrattengono e ci rassicurano i quotidiani economici, il Sole 24 ore e Italia oggi, con le classifiche di fine anno delle province italiane e il giochino del «chi sale, chi scende», che a sua volta produce scaramucce nei consigli comunali e analisi semi tecniche da parte degli economisti: come se il nostro star bene o male, nonostante tutto, fosse ancora misurabile con il Prodotto interno lordo, quando già Aristotele diceva che le cose utili servono alle cose belle.
Così mi sono ricordato, con un misto di meraviglia e di orrore, che la mia vita si svolge fra due delle città con la qualità migliore in Italia: Trieste e Genova. Nella classifica del "Sole-24 Ore" – divergente da quella di Italia oggi, forse per alimentare ulteriori divertissement – le mie due città sono prima e diciannovesima, e comunque in netto miglioramento rispetto agli anni scorsi. Ora, la meraviglia e l’orrore dipendono dalla mia personale sensazione che, anche lì, la qualità della vita stia paurosamente peggiorando. Come si starà ad Agrigento o a Rosarno?
A parte il computer, che in parte semplifica le cose e in parte diventa un alibi per complicarle, la sensazione, forse non solo mia, è che tutto stia diventando più difficile, stressante e faticoso: non solo muoversi fra le città o fra gli Stati, come c’imporrebbe l’ideale della mobilità quotidianamente smentito da Alitalia e dalle Ferrovie, ma anche sopravvivere nelle rispettive città. Saranno i disagi di un inverno non peggiore di altri,  ma ogni giorno diventa più complicato o più costoso fare le cose più semplici: anche arrivare in centro per fare quattro passi.
I nostri figli sono troppo giovani per poter fare confronti: ma noi no. Noi ricordiamo un altro mondo, nel quale industrie private e amministrazioni pubbliche non tagliavano quotidianamente sui servizi e non imponevano ogni giorno nuove regole, più cervellotiche del giorno prima; eppure si viveva lo stesso, anzi si viveva meglio. Certo, da quaranta-cinquantenni maturi, responsabili e democratici, preferiamo pensare che allora fossimo tutti più giovani, ingenui ed egoisti, e che i tagli e le razionalizzazioni di oggi siano il prezzo degli sprechi di ieri. Ma non sarà che ci stiamo semplicemente adattando, per non vedere l’erosione costante della qualità delle nostre vite?