Ogni giorno c'è un ministro, un sottosegretario, un esponente del governo che spara un petardo a effetto in una sorta di campagna elettorale permanente, parlando alla pancia del Paese, alimentando la cultura del nemico, scegliendo come obiettivo un giorno i poveri e un giorno i migranti.
Recentemente il ministro all’Istruzione ha scoperto che spesso tra i poveri molti e molte sono le persone con basso titolo di studio e che alcuni di loro hanno abbandonato precocemente i percorsi scolastici o comunque hanno solo la licenza media o elementare. Dipende dai punti di vista. Si potrebbe dire infatti che piuttosto è lo Stato a essere inadempiente nei loro confronti.
Che vi sia un nesso stretto tra la povertà materiale e i fenomeni della dispersione scolastica e del fallimento formativo è un dato da lungo tempo acquisito. Lo sanno tutti e tutte coloro che si occupano di educazione in questo Paese. Sanno che incredibilmente, a oltre mezzo secolo da Don Milani, uno dei problemi principali della scuola italiana è l’elevato numero di ragazzi e ragazze che si perde per strada o che non si forma in modo adeguato, non solo per trovare facilmente lavoro ma anche per esercitare a pieno titolo i propri diritti e doveri di cittadinanza (sempre citando Don Milani, per diventare “cittadini sovrani”, questione particolarmente rilevante nei caso di chi ha un background migratorio). E, ancora, che a rendere più grave tale situazione è che la stragrande maggioranza dei giovani coinvolti in tali fenomeni sono i figli e le figlie dei poveri, insieme proprio alle alunne e agli alunni con background migratorio (pari al 10% degli studenti frequentanti in Italia), la cui condizione spesso si sovrappone alla precedente. I punteggi del test internazionale Pisa (Program for International Student Assessment) nel 2018, l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati, mostrano infatti come più della metà degli studenti con background migratorio rientra nel quartile più basso dal punto di vista delle condizioni socio-economiche. Un nesso tra povertà educativa e classe sociale di provenienza che emerge anche da ricerche relative alle carriere scolastiche. Infatti, da diverse analisi e indagini di campo emerge con chiarezza come a parità di esiti scolastici i ragazzi e le ragazze si iscrivono a scuole superiori differenti a seconda della famiglia di provenienza. Circa l’80% ai licei se provenienti da famiglie benestanti e borghesi. Circa il 70% ai tecnici professionali nel caso di famiglie operaie o equivalenti soprattutto se residenti nelle periferie dei grandi centri urbani o in aree impoverite e a forte degrado sociale e soprattutto al Sud. Certificando una sorta di profezia che si auto-avvera, determinata dalle condizioni economiche e culturali delle famiglie di provenienza e non, o comunque non solo, dalle capacità e dall’impegno che ragazze e ragazzi mettono sulla cura dei loro percorsi scolastici. Viene infatti messa a repentaglio la fiducia in se stessi insieme alla possibilità di acquisire quella che l’antropologo Arjun Appadurai chiama la capacità di aspirare che porta molti bambini e bambine, ragazzi e ragazze a non essere in grado di immaginarsi in un ruolo diverso da quello al quale il loro destino sociale sembra averli inchiodati. Un destino fatto di matrimoni precoci, lavori precari e senza sbocco, rinuncia a intraprendere ulteriori percorsi formativi e di ricerca del lavoro e, in alcuni casi, anche di devianza e sottocultura.
A questo punto, meglio sarebbe stato istituire un ministero all’Istruzione e alla Dispersione scolastica
Ma il ministro questa connessione, in coerenza con la parola “merito” che compare a fianco alla parola Istruzione nel titolo del ministero, non la vede. Meglio sarebbe stato istituire un ministero all’Istruzione e alla Dispersione scolastica. L’età scolare è la fase della vita in cui si pongono le basi per la cristallizzazione delle disuguaglianze e dello svantaggio educativo o viceversa per il suo contrasto a livello dello sviluppo delle capacità e della percezione di sé e delle proprie possibilità. Ciò significa che le risorse che ha a disposizione un bambino, una bambina o un adolescente non possono essere fatte dipendere solo dallo sforzo e capacità individuali (se si interpreta in tal modo la parola “merito”) e neanche interamente dalle cure che la famiglia è in grado di assicurare e dal supporto e dai modelli di ruolo positivi che gli operatori del terzo settore sono in grado di fornire. Devono essere integrate dall’accesso a beni pubblici come scuole a tempo pieno, attività extracurriculari, disponibilità di attrezzature sportive, musicali e artistiche, supporto economico alle famiglie perché non debbano dipendere dalle entrate del figlio che consegna i caffè e della figlia che fa la parrucchiera a domicilio. Per il ministro invece tutto dipende dalla buona volontà delle alunne e degli alunni tanto è vero che nell’accanimento politico e culturale contro il reddito di cittadinanza (il cui approccio universale alle politiche di Welfare è in netto contrasto con l’orientamento fortemente identitario, corporativo e paternalistico/autoritario che caratterizza il governo Meloni) propone di escludere dalla misura chi non ha completato il ciclo di studi o chi, avendo un basso titolo di studio, non si impegna in un percorso formativo per raggiungerne un livello più alto. Ci si è spinti addirittura ad indicare come immorale dare un contributo a chi ha compiuto un’illegalità non rispettando una legge dello stato, dove l’illegalità è quella di non aver adempiuto all’obbligo scolastico.
Nel frattempo, nei meandri della Legge di Bilancio, mentre si tagliano risorse alla scuola pubblica si nota un piccolo ma significativo aumento dei finanziamenti alle scuole paritarie
Nel frattempo, nei meandri della Legge di Bilancio, mentre si tagliano risorse alla scuola pubblica si nota un piccolo ma significativo aumento dei finanziamenti alle scuole paritarie. Anche qui nessuna sorpresa, perché il ministro sa bene che spesso tali scuole, almeno nell’immaginario, sono le scuole selettive dove si iscrivono i figli e le figlie dei ricchi per evitare che vengano contaminati, da poveri migranti e bambini e bambine con disabilità che solo nella scuola possono acquisire spazi di socialità e di apprendimento se provengono da famiglie con scarse risorse (anche di capitale sociale). La scuola pubblica, con buona pace dell’articolo 3 della Costituzione, può rimanere per chi non si può permettere percorsi adatti al proprio “merito”, alla propria classe sociale e alle proprie abilità fisiche e cognitive.
Prevediamo che il prossimo passo del ministro sarò quello di smantellare tutto il lavoro interculturale che la scuola ha fatto in questi anni. Perché la scuola, con le sue “aule mondo”, è stato il luogo dove alunni italiani e alunni con background migratorio si sono riconosciuti, prima di tutto, come coetanei e come pari. Dove, nel contatto quotidiano e diretto ha trovato poco spazio la retorica del nemico e dell’invasione ma al contrario è emersa tutta la potenzialità e la ricchezza della convivenza tra differenti culture. Non sia mai continuare su questa strada, altrimenti si corre il rischio che qualcuno provi ancora indignazione quando un altro ministro della Repubblica definisce “scarti residui” persone che scappano da guerra, fame e disastri ambientali. Per ora il ministro non ci ha ancora detto che le differenti percentuali di dispersione e abbandono che si registrano tra quartieri come Scampia e Mergellina sono dovuti al fatto che le bambine e i bambini che nascono nel primo sono geneticamente predisposti a rendere meno nello studio e a essere più fannulloni. Ma c’è ancora tempo.
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