Mentre scrivo, nel pomeriggio del 2 maggio, i tifosi più accaniti del Manchester United hanno invaso il campo da gioco e impedito l’inizio della partita contro il Liverpool. Hanno una sola rivendicazione, «fuori i Glazer!»: per i militanti, gli imprenditori sportivi miliardari americani, proprietari della squadra, i fratelli Glazer, devono fare i bagagli e tornarsene subito in Florida. Sono i proprietari della squadra dal 2005: che cosa ha potuto trasformare all’improvviso i loro tifosi in una massa urlante di ribelli violenti? La risposta è semplice: il fiasco della Superlega europea di calcio, progetto che i Glazer hanno abbracciato fin dal suo lancio la sera del 18 aprile, ma che è naufragato nel modo più miserevole non più di due giorni dopo, sepolto da uno tsunami di proteste a ogni livello del calcio inglese, sul quale ha piantato da subito la sua tavola da surf quel populista di Boris Johnson.
Nella lunga storia dell’influenza americana sui cambiamenti sociali, economici e politici in Europa, la vicenda della Superlega rimane unica. Questo non tanto per via del progetto, quanto perché tra le tante reazioni possibili da parte dell’Europa alle novità provenienti dall’America, nessuna reazione è esplosa con così tanta intensità, unità e, soprattutto, rapidità.
Com’è accaduto spesso in passato, l’idea della nuova lega è partita dall’Europa stessa, in questo caso dal patron del Real Madrid, società afflitta come tante altre da debiti pesanti e perdite dovute all’emergenza Covid-19. Il progetto, abbracciato dai proprietari di Liverpool, Manchester United, Arsenal e Milan, e poi sostenuto dall’impegno di 4,3 miliardi di dollari della banca di New York J.P. Morgan, ha presto assunto tutto il dinamismo, le dimensioni e la prepotenza di tante altre grandi innovazioni americane arrivate in Europa. Da Hollywood fino a Über, passando per le catene di grandi magazzini, la pubblicità di massa, la televisione commerciale, i supermercati, la cultura giovanile, giù giù fino a McDonald’s, EuroDisney, Microsoft, Apple e tutte le altre grandi imprese dell’hi-tech provenienti dalla Silicon Valley e da Seattle, c’è sempre stata qualche «sfida americana», per riprendere il concetto lanciato nel 1968 dall’imprenditore francese dei media, Servan-Schreiber.
In un certo senso, anche i movimenti «alternativi» come Me Too! e Black Lives Matter si possono inquadrare nella stessa maniera: sono novità dirompenti che ‑ per energia, ubiquità, originalità e fascino ‑ funzionano come propulsori di cambiamento a tutti i livelli nelle società europee. La proposta della Superlega e le reazioni da essa suscitate dimostrano che questa dinamica transatlantica e asimmetrica di confronto culturale è attiva oggi come lo è stata in tutto l’ultimo secolo.
Ancora una volta, la sfida americana finisce col dividere gli europei: ci sono entusiasti e protezionisti, ed è la dinamica tra questi due poli che finisce con il coinvolgere la politica, se la posta in gioco è significativa
E, ancora una volta, la sfida americana finisce col dividere gli europei: ci sono gli entusiasti e i protezionisti (più altri agnostici, indifferenti, «benaltristi» ecc.), ed è la dinamica tra questi due poli che finisce con il coinvolgere la politica – locale, nazionale o europea che sia – se la posta in gioco è abbastanza significativa. Nel caso della Superlega, sei squadre inglesi, tre italiane e tre spagnole si sono subito pronunciate a favore. I tedeschi e i francesi si sono tenuti alla larga; si direbbe che le prime società di altre nazioni – portoghesi e olandesi per esempio – non siano nemmeno state consultate. Il Primo ministro inglese e il presidente francese, invece, hanno espresso la loro opposizione già nelle prime ore dall’annuncio ufficiale del progetto.
Secondo Perez del Real Madrid il problema non era solo quello finanziario immediato, bensì la necessità di «modernizzare» il gioco del calcio, dal momento che – parole sue – «il 40% dei giovani di oggi non si interessa più a questo sport». Senza un cambiamento forte, il pubblico televisivo avrebbe cominciato a diminuire e i diritti pagati dalle società che trasmettono le partite a livello mondiale – fonte dell’enorme ricchezza tradizionale di squadre, giocatori, manager e proprietari – avrebbero cominciato a declinare. Anche il presidente della Juventus ha sostenuto il progetto, che avrebbe dovuto produrre un nuovo tipo di partita – più rapida, più dinamica, con più gol – e avrebbe eliminato le partite di «bassa qualità» (Perez), almeno dalla televisione, costruendo una serie esclusiva di società d’élite, sempre le stesse, con la possibilità – non definita – di ammettere temporaneamente qualche altra società ospite. Il tutto in un’ottica sempre più globale e sempre più digitale.
Come ha scritto David Goldblatt, il più acuto esperto inglese di calcio a livello mondiale: «Nel calcolo amorale del banchiere e dell’oligarca, non c’è più bisogno di dare priorità assoluta ai tifosi negli stadi, tantomeno di rispettare i profondi impulsi storici di origine locale e nazionale che li hanno portati in questi stadi. Il capitale è convinto che un prodotto di tipo digitale e globale lo farà guadagnare di più» (The greed of the European Super League has been decades in the making, «The Guardian», 20 aprile 2021).
A Goldblatt e ad altri esperti – cioè alla massa dei tifosi militanti – era evidente che il modello di fondo dietro il grande progetto fosse di disegno esclusivamente americano. La Superlega è stata lanciata al mondo nella notte del 18 aprile e il giorno dopo il commentatore calcistico del «New York Times», James Montague, ha scritto: «Si tratta di un annuncio made in America». Ha spiegato: «Le serie sportive americane sono organizzate in modo che i proprietari controllino le licenze e condividano i redditi strada facendo. Le licenze possono essere spostate da una città a un’altra per massimizzare i redditi e approfittare degli sconti fiscali, ove esistono. Dagli anni Ottanta, questa è diventata la prassi, altamente redditizia. Ma è un modus operandi totalmente alieno alle tradizioni del calcio…».
«Assolutamente centrale in ogni serie calcistica nel mondo è l’idea della promozione e della retrocessione: una piramide dentro la quale un buon rendimento in tutta una stagione ti porterà alla serie superiore, mentre se vai male a quella inferiore. Questo sistema produce una specie di meritocrazia, difettosa ma funzionante, per garantire che ogni squadra tenga sempre presente la sua posizione in classifica. Ciò non può esistere nel sistema sportivo americano, perché il rischio d’investimento del proprietario è troppo grosso. Perché mettere i tuoi soldi in una squadra quando basta una sola stagione andata male per compromettere il tuo posto al tavolo più in alto?» (Are American Values Ruining European Football?, «The New York Times», 20 aprile 2021).
Due giorni dopo il «Times» di Londra rivelò che i piani per la nuova serie esistevano da anni e che contenevano numerosi provvedimenti copiati dal sistema sportivo americano, compresi i limiti sui salari dei giocatori, i meccanismi per condividere i redditi globali dentro il gruppo e l’assoluto divieto alla retrocessione (American-style European Super League was planned in secret for years, «The Times», 21 aprile 2021).
Nei confronti culturali transatlantici tipici dell’ultimo secolo, c’è sempre stata una netta divisione tra quelli che abbracciano in modo incondizionato tutto quello che l’America propone e quelli che invece non ne vogliono neanche sapere, in pratica tra entusiasti e protezionisti. Il caso di Hollywood è quello originale e più paradigmatico. Gli impulsi dall’alto che negli anni Venti e Trenta si muovevano per proteggere le masse dai presunti effetti moralmente sovversivi del cinema di Los Angeles sono gli stessi che oggi vogliono proteggere la democrazia liberale dalla penetrazione sociale incontrollata di Facebook, Twitter e Google.
Quello che resta straordinario nella furiosa reazione scatenata dalla proposta della Superlega è il modo in cui ha unito ogni livello del mondo inglese che si interessa al calcio, e come ha coinvolto i più alti livelli del governo nel giro di poche ore. Certi grandi vecchi pilastri del campo di gioco, come Gary Neville, ex Man United, e Alan Shearer di Newcastle, si sono espressi in televisione e sui social media in termini inconfondibili: società come le loro rappresentano un patrimonio prodotto da decenni di vita e di lealtà delle classi lavoratrici delle loro città; la posta in gioco si chiama potere, orgoglio, dignità, valori non vendibili a una cricca di capitalisti rapaci, oligarchi, sceicchi e banchieri col solo scopo di permettere loro di fare ancora più soldi. L’intera squadra attuale di Liverpool ha sottoscritto queste prese di posizione.
La mattina dopo il primo annuncio, Johnson aveva già preparato una colonna su «The Sun», il giornale di Murdoch più venduto tra le masse:
«Basta respirare per sapere che il calcio non è un marchio o un prodotto. È persino più di uno sport. Le società calcistiche presenti in ogni città grande e piccola, a ogni livello della piramide delle serie, hanno un posto del tutto unico nel cuore delle loro comunità e sono fonte di un appassionato orgoglio locale senza rivali. La cosa bella della struttura attuale del sistema (durato decenni) è che persino i più lunghi periodi di frustrazione sono compensati dal sogno del giorno in cui la tua squadra potrà emergere finalmente in cima…».
Il giorno dopo, martedì 20 aprile, Johnson ha convocato al numero 10 di Downing Street, una riunione dei presidenti delle principali società non coinvolte nel progetto Esl, insieme ai capi delle loro tifoserie. Qui il Primo ministro ha spiegato che era pronto a far esplodere «una bomba legislativa» sul progetto dell’Esl, un intervento che poteva includere delle misure per costringere le squadre «Super» a trasmettere le loro partite in diretta, gratis –distruggendo così le loro capacità di vendere all’asta i diritti televisivi nel Paese dove essi costano di più al mondo – e utilizzare le leggi già esistenti in materia fiscale e anti-monopolistica per colpire la natura «chiusa» della nuova serie.
Sono bastate poche ore per far naufragare tutto: tra i tanti, martedì mattina si sono pronunciati contro il progetto i primi ministri di Italia, Portogallo, Grecia e Ungheria, finché di notte la Superlega è stato dichiarata morta per sempre
Lo stesso martedì mattina si sono pronunciati contro il progetto i primi ministri d’Italia, Portogallo, Grecia, e Ungheria, personaggi politici diversi in termini ideologici e di legittimità. Martedì notte il tutto è stato dichiarato morto e sepolto per sempre e qualcuno degli americani – persino il capo di J.P. Morgan, Jamie Dimon - ha cominciato a fare un po’ d’autocritica in pubblico.
La reazione a Torino è stata accompagnata da grande amarezza. Andrea Agnelli ha dato la colpa del disastro – per la Juve e le altre 11 squadre – a Johnson e alla Brexit, che avrebbe dato all’inglese la possibilità di emanare minacce non possibili nel quadro delle leggi comunitarie. Dopo aver dedicato, il lunedì, sei pagine de «la Repubblica» al grande sogno, il mercoledì l’unico commento è stato un amaro editoriale che lanciava accuse di tradimento a destra e a sinistra. Nel frattempo, su «La Stampa» di martedì 20, lo storico Giovanni De Luna ammoniva i vincitori che la partita non era per niente finita, che i problemi che avevano prodotto il super-progetto non era scomparsi e sarebbero tornati a disturbare i sogni di quelli che si consideravano i vincitori del momento.
La storia dimostra nel modo più chiaro possibile che De Luna ha ragione. Persino quando la sfida americana non riesce a travolgere i suoi presunti beneficiari, la sua forza è tale che essi non possono sfuggire alle sue implicazioni e ai suoi strascichi: prima o poi tutti si adattano, chi volentieri e chi molto meno. La diffusione di McDonald’s ha fatto nascere – grazie al genio di Carlo Petrini – il movimento Slow Food. L’arrivo di Über in Europa nel 2011, dopo un’ondata immediata di violente proteste da parte dei tassisti di mezzo mondo, ha visto quel settore adottare le sue app e i suoi nuovi modi di muoversi. Altri casi non sono stati così positivi: la Francia non è riuscita a convincere l’Ue a costruire una plausibile alternativa a Google. La lotta di Bruxelles contro gli altri monopolisti dell’informatica, in corso da anni, non è riuscita a produrre un equivalente europeo di uno di loro. Nel caso del calcio, Johnson, dopo il famoso martedì, ha subito ordinato un’indagine governativa nell’attuale sistema di governance di quello sport, toccando le regole delle proprietà, dei finanziamenti, del mercato dei giocatori, del ruolo dei tifosi, e ha messo a capo dell’inchiesta una nota ex ministra dello Sport.
È già visibile il prossimo terremoto che colpirà il mondo del calcio, che partirà sempre dagli Stati Uniti: succederà quando i grandi servizi di streaming cine-televisivi – i vari Netflix, Amazon Prime, Disney Channel ecc. – dirigeranno la loro attenzione e i loro immensi capitali verso il mondo dello sport. Netflix da solo, con una disponibilità di miliardi e caratteristiche tipicamente americane – dimensioni, dinamismo, ubiquità e «implacabilità» (relentlessness, parola molto amata di Jeff Bezos di Amazon) – potrebbe sicuramente «trovare i modi per trasformare lo sport via streaming in un business funzionante», ha scritto un commentatore del «Financial Times» a gennaio. Ma se Netflix o altri volessero avvicinarsi al mondo del calcio europeo, tutto l’hard power dei loro dollari non potrebbe permettersi di ignorare il soft power di tradizione, lealtà, identità e solidarietà incarnato da centinaia di migliaia di tifosi attivi dispersi su e giù per il Vecchio Mondo.
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