Il 28 settembre del 2011 sul «The New York Times» comparve un editoriale firmato dal biologo Steve E. Wright, intitolato The Not-So-Green Mountains. L’autore considerava un progetto di parco eolico sulle Lowell Mountains in Vermont, deplorava la «profanazione […] compiuta nel nome dell’energia “verde”» e constatava il fatto che «il fascino dell’energia eolica minaccia di distruggere paesaggi di grande valore ambientale». Secondo Wright, l’installazione degli impianti lungo i crinali avrebbe richiesto di costruire strade al posto dei sentieri creati da orsi, cervi, alci e linci, di far esplodere parti delle montagne per procurarsi materiale da costruzione, di abbattere foreste, il che a sua volta avrebbe causato una maggiore erosione e, naturalmente, la distruzione di interi ecosistemi. Wright constatava con stupore il fatto che molti gruppi ambientalisti non si fossero opposti al progetto, per paura di apparire contrari allo sviluppo di energie «verdi». Questa la conclusione dell’articolo:

«progettare impianti eolici di grande ampiezza sui crinali del Vermont rappresenta un errore terribile di visione e pianificazione e una mancata comprensione di quel che una società responsabile dovrebbe fare per rallentare il riscaldamento del nostro pianeta. Rappresenta anche la profonda incapacità di comprendere il valore del paesaggio».

Queste parole, oggi, non suonano nuove. È di pochi giorni fa la notizia del contrasto fra ministero della Transizione ecologica e dei Beni culturali, relativa all’ipotesi di allentare i vincoli all’edificazione di nuovi impianti eolici nei paesaggi italiani, così come la presa di posizione di alcune associazioni ambientaliste a favore dell’eolico. Parrebbero esserci due schieramenti: gli «ambientalisti tradizionali o conservazionisti», per cui paesaggi ed ecosistemi debbono restare intatti e il fine di produrre energie «pulite» non giustifica mai, o quasi mai, la distruzione di ambienti e specie intatti pre-esistenti; e i «post-ambientalisti» (potremmo chiamarli anche «pragmatici» o «climatisti»), per i quali non si può avere tutto e l’obiettivo di frenare il cambiamento climatico assicurando un livello di sviluppo accettabile giustifica il sacrificio di ambienti, ecosistemi, e al limite anche di specie.

Gli impianti eolici sono in competizione con molti animali, piante ed ecosistemi: le pale eoliche condividono l’habitat con molte specie di uccelli, con svariate specie vegetali, con molti ecosistemi. Basta immaginare l’estensione di terreno occupata dai basamenti delle pale, l’impatto delle pale medesime sul volo degli uccelli, le modificazioni del territorio necessarie a garantire l’accesso agli impianti – le vie d’accesso, come minimo, ma anche altre infrastrutture. L’energia eolica, insomma, ha quasi sempre un prezzo in termini di diminuzione di biodiversità. Ma naturalmente si può obiettare a tutto questo che le energie alternative sono comunque un miglioramento necessario e indispensabile sulla strada della conversione o della transizione ecologica. Le energie alternative sono un miglioramento necessario e indispensabile sulla strada della transizione ecologica. Tuttavia...Una parte delle ragioni a favore o contro questi due modi di vedere dipende da questioni empiriche. Bisognerebbe vedere, ad esempio, se veramente le fonti tradizionali di energia che gli impianti eolici potrebbero sostituire o integrare siano le sorgenti maggiori di emissione. Si dovrebbe stabilire con esattezza il tasso di efficienza dell’energia eolica. Bisognerebbe determinare il contributo marginale, cioè aggiuntivo, che ogni singolo impianto può dare alla produzione complessiva di energia eolica. Si dovrebbero anche esplorare strategie diversificate e più flessibili: per esempio, valutare con attenzione dove impiantare, distinguendo con attenzione gli impatti (è ovvio che ci siano differenze fra impianti marini e impianti a terra, fra impianti piccoli e grandi, e così via).

La complessità di valutazioni di questo genere non invita, ovviamente, a una deregulation. Anche se si volesse ottenere una maggiore efficienza, garantendo tempi più rapidi, rimarrebbe comunque necessaria un’analisi molto accurata di tutte le questioni elencate sopra, da compiere prima di autorizzare ogni nuovo impianto.

Ma c’è anche un livello di riflessione più generale. Può capitare di pensare che il cambiamento climatico in sé sia un male e che qualsiasi mezzo per fermarlo, o attenuarlo, sia lecito. Ma il male da allontanare non è il cambiamento climatico in sé e per sé, bensì il cambiamento climatico «pericoloso», cioè quello che ha effetti nocivi – effetti nocivi sugli esseri umani, ma anche sulle altre specie viventi e sui loro habitat. Quindi, le politiche di mitigazione e adattamento vanno valutate soprattutto in termini di effetti: effetti dell’aumento o della riduzione delle temperature presenti e future, ma anche effetti delle politiche medesime.

Il cambiamento climatico è un male non solo perché provocherà condizioni peggiori per la vita umana, ma anche perché causerà l’estinzione di specie (qualcuno parla di sesta estinzione di massa), perché distruggerà ecosistemi in maniera irreversibile, perché tutto questo provocherà un’inevitabile perdita di biodiversità. Ogni politica di contenimento del cambiamento climatico e dei suoi effetti dev’essere valutata nei termini degli effetti comparati – della politica in questione e del cambiamento climatico futuro. Bisogna stabilire quante specie si estinguerebbero se si continuasse come prima, ma anche quante specie si estinguerebbero se la politica discussa venisse attuata. Si deve calcolare il numero e il tipo di ecosistemi la cui esistenza verrebbe messa a repentaglio dal cambiamento climatico futuro, e quanti ne verrebbero danneggiati se la politica in questione venisse attuata.

C’è un’argomentazione ricorrente dei post-ambientalisti che è giusta. Non si può avere tutto: ogni scelta implica perdite e guadagni, che si debbono confrontare. Anche l’inazione è una scelta: di fronte a situazioni catastrofiche, come è il cambiamento climatico, intestardirsi a conservare piccole nicchie ecologiche può rischiare di farci perdere di vista il quadro complessivo. Peraltro, il feticcio della natura selvaggia o intatta è ormai non solo concettualmente inadeguato, ma anche praticamente deleterio: la natura incontaminata, se mai è esistita, non esiste più nell’Antropocene, nell’epoca di massimo impatto umano sul pianeta. E, peraltro, il cambiamento climatico è proprio l’ambito in cui dovremmo essere consapevoli degli effetti sistemici e irreversibili della nostra azione sull’ambiente che ci circonda e dovremmo anche tenere conto della storia ecologica della specie umana, che è una storia di interazioni continue e reciproche: abbiamo sempre mutato il nostro ambiente, siamo animali la cui nicchia ecologica è in continua trasformazione, anzi la cui natura forse è proprio quella di trasformare tutto ciò che circonda. Il feticcio della natura selvaggia è concettualmente inadeguato e deleterio: nell'Antropocene la natura incontaminata non esiste praticamente più

Ma quest’argomentazione non conduce alle conclusioni che certuni vorrebbero. Proprio perché abbiamo cambiato il pianeta, dovremmo essere consapevoli di tutti gli effetti che il nostro impatto ha creato e potrà creare, e dovremmo avere giudizi chiari sugli effetti che vogliamo e su quelli che vorremmo evitare. Rassegnarsi al fatto che non esiste natura intatta, e criticare certe nozioni romantiche di «natura», non vuol dire cedere all’idea che non ci sia differenza fra occupazione totale dell’ambiente naturale e strategie di protezione di ecosistemi e specie. È vero che non esistono piante e animali che non abbiano avuto una qualche influenza derivante dall’impatto umano. Ma ciò significa che possiamo fare estinguere certe piante e animali, e magari crearne delle copie sintetiche? Non è detto. Se ne deve discutere con attenzione.

E sono solo gli effetti sull’umanità che debbono premerci? Se il problema fosse solo lo sviluppo economico, non sarebbe affatto detto che il cambiamento climatico sia veramente nocivo: i poveri del mondo vogliono industrializzazione e benessere, anche con un po’ di inquinamento e meno biodiversità. I mutamenti del clima sono pericolosi anche e soprattutto per gli animali non umani e per l’ambiente; però, è a questi ultimi che si deve pensare ogni volta che si immaginano politiche di contenimento delle emissioni. Guadagnare fonti di energia pulita è certamente un obiettivo auspicabile: ma se il prezzo è perdere biodiversità, non è detto che si tratti di guadagni netti, o irrinunciabili. Prima di avere nuovi fonti di energia, c’è sempre la possibilità di usare meglio, o di risparmiare, l’energia delle fonti tradizionali. Sacrificare la biodiversità esistente all’obiettivo della decarbonizzazione è una contraddizione: la decarbonizzazione è un mezzo per preservare la biodiversità, non un fine in sé.