Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Molti anni or sono, quella geniale figura a metà strada tra lo storico e lo scienziato sociale che era Charles Tilly diede questa fulminante definizione dello Stato: «se il racket costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati ‑ classiche forme di racket col vantaggio della legittimità ‑ costituiscono il più grande esempio immaginabile di crimine organizzato». Già, perché, come il racket, lo Stato è nato offrendo sicurezza da minacce da esso stesso suscitate. Col tempo, spiega Tilly, lo Stato è però sceso a patti con le sue vittime, riducendo in misura consistente l’uso della violenza. Dapprima ha garantito i diritti di proprietà alla classe mercantile, ha quindi erogato una mole crescente di servizi alla popolazione, per assicurarsene l’acquiescenza, ha costituito grandi burocrazie pubbliche, in grado di organizzare tali attività.
Con la fine dell’Urss era venuto meno lo scheletro: sia lo Stato-nazione, sia l’economia socialista, da tempo in decadimento
Una rappresentazione di questo genere può forse tornar comoda per intendere la condizioni della Russia a cavallo tra i due millenni. Discioltasi l’Urss, in poche settimane, uno spazio di 22 milioni di chilometri quadrati, ove vivevano 300 milioni di abitanti, è regredito allo Stato-racket. Quella che era stata una delle due grandi potenze planetarie, dotata di un enorme apparato militare e di considerevoli capacità tecnologiche, era ridotta in macerie. Erano macerie che comprendevano cospicui residui di apparati di sicurezza, esercito, partito, amministrazioni e imprese pubbliche, scuole, università, centri di ricerca, ospedali, ferrovie, la chiesa ortodossa e tante altre cose. Ma era venuto meno lo scheletro: sia lo Stato-nazione, seppure nella forma peculiare in cui si era costituito da quelle parti, dove le burocrazie pubbliche s’intrecciavano col partito, sia l’economia socialista, da tempo in decadimento. Era una condizione terribile: chi nello scenario internazionale, tra politici, intellettuali, imprenditori, giornalisti, ha capito il pericolo? Chi ha pensato che non si dovesse profittarne, per sfruttare l’enorme potenziale di materie prime offerto da quegli sconfinati territori, ma si dovesse piuttosto concorrere a ricostruire le istituzioni collassate? Fiero di aver sconfitto il comunismo, l’Occidente se l’è cavata pensando che nessun ostacolo più si opponesse alla fioritura da quelle parti di quelle che considera le sue più formidabili invenzioni: la democrazia e il capitalismo. Come se fosse facile improvvisarli. Eppure, si dovrebbe saperlo: sia l’una, anche solo nella sua dimensione formale, sia l’altro sono sempre stati frutto di un laboriosissimo e prolungato travaglio, per giunta sempre coronato da esiti imperfetti.
Così in Russia, e in quasi tutti i nuovi Stati ex sovietici, si è ripartiti dalle macerie, dai residui di istituzioni che detenevano ancora un capitale coercitivo. Pezzi di forze armate, apparati di sicurezza, di partito, ma pure la criminalità organizzata, cresciuta rigogliosamente nell’ultima stagione comunista. Con tali materiali si è allestito uno Stato-racket, mentre, privatizzando l’economia socialista, si è improvvisato il capitalismo degli oligarchi, intriso di violenza e corruzione, ma irrobustito dai pingui traffici con l’Occidente. Una quota dei problemi di governabilità è stata infine risolta dalla frettolosa e scomposta emancipazione di larghe porzioni di territorio sovietico, tra cui l’Ucraina, per lo più governate allo stesso modo.
Fiero di aver sconfitto il comunismo, l’Occidente se l’è cavata pensando che nessun ostacolo più si opponesse alla fioritura da quelle parti di democrazia e capitalismo
Era scritto che accadesse tutto questo? La storia si fa con i materiali disponibili al momento. Non fosse che tra questi materiali c’era pure l’Occidente, che sempre pecca di miopia e non impara dai suoi fallimenti. I processi di decolonizzazione si sono quasi tutti svolti con modalità analoghe. Dopo l’occidentalizzazione forzata, strumentale e selettiva ‑ niente principi democratici ‑ i territori ex coloniali sono stati abbandonati con infrastrutture statali ed economiche a dir poco disastrate: né tradizionali, né moderne. Visto che la Russia era sul pianerottolo di casa, forse ci si sarebbe potuta aspettare più preveggenza. La si è abbandonata alla sua sorte, lucrando sulle sue debolezze.
L’ascesa di Putin ai vertici del Paese ha insaporito lo Stato-racket con un altro ingrediente: l’orgoglio nazionale, umiliato negli anni di Eltsin. L’idea che la Russia fosse ancora una grande potenza è stata il narcotico somministrato a una popolazione afflitta dalle disuguaglianze, dal decadimento dei servizi, dalla corruzione e dalla criminalità, e pure dallo spettacolo della ricchezza e del lusso indecenti di una ristrettissima élite.
Per parte sua l’Occidente ha preferito investire nel sostegno ai Paesi dell’Europa ex socialista, oggetto di un’inclusione pelosa nella Unione europea, condotta anch’essa all’insegna dell’illusorio binomio democrazia/capitalismo. Che è servito a sincronizzare le economie di quei Paesi con le economie occidentali, a esternalizzare colà un po’ di produzioni, ad attivare ampie riserve di manodopera a basso costo a spese dei lavoratori occidentali, ma a instaurare istituzioni democratiche molto claudicanti, anche in ragione di un nazionalismo furioso. L’ostilità di quei Paesi verso la Russia è umanissima e comprensibile. C’è da chiedersi se includerli nella Nato fosse il solo modo per tutelarli militarmente. Da tempo, una strategia analoga è stata condotta anche verso l’Ucraina, pur se tra difficoltà ben maggiori: oltre al nazionalismo che si sfoga su una parte della popolazione, le infrastrutture democratiche ed economiche versano in condizioni ancor più problematiche. La conseguenza ovvia è stata di suscitare diffidenze simmetriche da parte russa, cui si è di nuovo replicato con un’offensiva non solo propagandistica degna del tempo della Guerra fredda.
Non è la prima invasione del millennio: ci sono precedenti molto sanguinosi di parte occidentale. Il racket cova in molti posti. Questa invasione ha lo svantaggio di essere molto prossima
Adesso, la discutibile invenzione della Russia post-sovietica, che non è responsabilità esclusiva dei russi, ma di cui è corresponsabile l’Occidente, si è rivoltata contro i suoi co-inventori occidentali. Si adducono tanti moventi per la rivolta. Putin ha perso la testa. È l’anima asiatica, in perenne conflitto con l’Occidente. È il terrore di essere accerchiata dalla Nato e dall’Occidente. Un’altra ipotesi sarebbe invece che in corso un conflitto tra le diverse famiglie del racket che ha in Putin il suo vertice. O che il racket sia in difficoltà e debba urgentemente rinnovare la sua offerta di sicurezza alle sue vittime. Col tempo capiremo. Il risultato è un inghippo, sulla pelle degli ucraini. Non è la prima invasione del millennio: ci sono precedenti molto sanguinosi di parte occidentale. Il racket cova in molti posti. Questa invasione ha lo svantaggio di essere molto prossima.
Umanamente non possiamo che solidarizzare con gli ucraini aggrediti: con le centinaia di vittime civili inermi, con le migliaia cacciati dalle loro case, con chi difende il Paese, con lo stesso Zelenski, travolto da manovre infinitamente più grandi di lui. Eppure, oltre a riflettere sugli errori commessi verso la Russia post-sovietica, dovremmo soprattutto mostrare qualche comprensione per la popolazione russa. Malgrado qualche tentativo, i rapporti tra Stati non fuoriescono dalla loro inciviltà. La (relativa) civilizzazione della politica interna, che è antica di due-tre secoli, non è stata seguita dalla civilizzazione della politica estera. Ci si è provato, ma senza troppo successo. Fa parte di tale inciviltà la scarsa cura per il destino dei popoli, vittime dei propri governanti, a maggior ragione quando sono autocrati brutali e corrotti. Li si tratta da corresponsabili, quando, tolta una minoranza anche ampia che collabora attivamente, la maggioranza è solo sottomessa e cerca di sopravvivere.
I popoli si ribellano con fatica. Figurarsi in un Paese governato con massiccio impiego di coercizione e in cui l’assenza di pluralismo aggrava infinitamente i rischi di manipolazione
I popoli si ribellano con fatica: perché è rischioso e costoso. La sottomissione è spesso reticente. Figurarsi in un Paese governato con massiccio impiego di coercizione e in cui l’assenza di pluralismo aggrava infinitamente i rischi di manipolazione. Ora, se era terribile il punto di vista che dalla Seconda guerra mondiale in poi ha indotto a infierire senza pietà sulle popolazioni civili, lo è anche quello che impone sanzioni che saranno pagate da popolazioni, che avrebbero bisogno di grande solidarietà: in Russia sia la minoranza che trova il coraggio di protestare e pure l’enorme maggioranza che vive mediamente in condizioni assai deplorevoli.
Non sappiamo quale sia la soglia di resistenza di Putin e del suo regime: dall’alto di una montagna di 6 mila bombe nucleari non deve essere bassa. Ma è difficile immaginare che basteranno le sanzioni, pur severissime, a fermarlo. Quelle peseranno sulla popolazione. Che va dissociata dai tiranni in tutt’altro modo: con un invito alto e forte a tutte le parti a deporre le armi, non solo quelle militari, anche quelle economiche, per ricominciare da dove si sarebbe dovuto cominciare trent’anni or sono. Serve un grande patto continentale per la sicurezza e la dignità di tutti. Chi in Occidente manifesta sulle piazze per solidarietà con gli ucraini è proprio questo che dovrebbe richiedere.
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